Nozioni di Grafia ed Ortografia
Lezione del Proff. Gianfranco Pavesi

Indice

1.        Il “senso” dello scrivere in dialetto oggi                                                              2

2.         Grafia e orto-grafia                                                                                              3

a)        La necessità di una codificazione esplicita della grafia                           3

b)        La necessità di una grafia unica                                                               5

c)        L’assenza di un “ente normante” riconosciuto                                        6

d)        L’improponibilità delle grafie “ingenue”                                                 6

e)        Il criterio del “rigore scientifico” ed i suoi limiti                                     8

f)         La necessità di esplicitare i “fini”: a cosa dovrà servire la grafia?       9

g)        I problemi delle grafie “vicine a come si legge”                                          9

3.         I “perché” della nostra grafia                                                                                     11

4.         Un possibile problema: la necessità di “documentare” una variante            13
Il “senso” dello scrivere in dialetto oggi

 

Fino ad alcuni decenni fa la scrittura era l’unico veicolo che permetteva di tramandare una lingua o una parlata. Sono ben note, ad esempio, le difficoltà e le limitazioni che incontra lo studio della civiltà celtica, che faceva un uso quantomeno parsimonioso della scrittura: ci riesce estremamente difficile approfondire le lingue celtiche, mentre per contro conosciamo nei minimi dettagli il latino, le cui testimonianze scritte ci sono in larga misura pervenute.

Da tempo tuttavia il progresso tecnologico mette a disposizione altri mezzi, diversi dalla scrittura, per immortalare vari aspetti di una cultura, e in particolare la sua parlata: le registrazioni, audio prima e video poi, sono in grado di restituirci una testimonianza linguistica fin nelle sue più minute sfumature, ben al di là di quanto possa fare qualunque documento scritto, per quanto elaborata sia la grafia in cui è redatto[1]. E’ allora lecito chiedersi: ha ancora senso impegnarsi nella elaborazione e nell’apprendimento di una grafia?

Il dubbio è ulteriormente rafforzato da considerazioni sulla natura storicamente (e alcuni vorrebbero “intrinsecamente”) orale della cultura che il dialetto esprime, almeno nel caso delle parlate novaresi: c’è addirittura chi vede il fatto di scrivere in dialetto come “una forzatura”, estranea al portato culturale che esso stesso esprime.

Si potrebbe ribattere che forse la “forzatura” sta piuttosto in una lettura eccessivamente “romantica”, che comunque non tiene conto della storia anche letteraria – e dunque scritta – che almeno le varianti di maggior prestigio hanno voluto e saputo darsi da secoli. Al di là di questo rimane il problema della superiorità tecnica della riproduzione audio-video rispetto al mezzo scritto, almeno quanto alla capacità di farci conoscere, in modo immediato e ricco di dettagli, una parlata[2]. Né vale a mutare gli equilibri in campo il fatto che a volte la pronuncia non è così chiara o che addirittura ci possono essere forti problemi di comprensione dovuti magari a registrazioni di qualità mediocre o addirittura scadente: a volte le registrazioni che poi risultano più viziate da difetti sono state fatte in situazioni dove il ricorso alla scrittura come compiuta alternativa documentale non sarebbe stato neppure pensabile (si pensi alle registrazioni effettuate “sul campo” – è il caso di dirlo... – dei cori delle mondine), e d’altro canto i refusi contenuti nei testi scritti possono essere anche più gravi (basti citare il problema degli errori che non di rado trovano nei vocabolari di dialetto ospitalità generosa e degna di miglior causa).

A noi il problema sembra in verità essere un altro: ostinarsi in una logica di comparazione fra scrittura e documentazione audio-video finisce per rendere ciechi agli evidenti aspetti di complementarietà ed anzi di sinergia che le due tecniche permettono[3]. Anche senza entrare nell’ambito delle valenze psicologiche che il libro soddisfa e che le altre tecnologie lasciano inappagate (si pensi solo alla gratificazione legata al tatto), colpisce il fatto che gli stessi esperti di informatica, lungi dall’abbandonare la scrittura, stiano piuttosto sviluppando tecnologie multimediali (ad esempio i cosiddetti e-book) che esaltano il mezzo scritto mettendo a sua disposizione tutta flessibilità e la potenza della tecnologia informatica. Si potrà quindi passare dal supporto cartaceo a quello informatico, ma in questo passaggio la scrittura, lungi dal rimanere ancorata al “libro” in senso tradizionale, appare senz’altro destinata a mantenere un ruolo centrale. E poiché dietro ogni testo scritto ci sono (o ci dovrebbero essere...) le regole di grafia che governano la scrittura stessa, gli sforzi per costruire ed apprendere una grafia appaiono pienamente giustificati.

 

1.      Grafia e orto-grafia

 

Se è vero che un libro, purché non danneggiato, è (almeno in generale) “immediatamente leggibile”, non altrettanto ovvio è che sia “immediatamente comprensibile”. Oggi p.es. non è più pensabile leggere la Divina Commedia senza note esplicative (al di là di quelle utili a mettere in risalto gli aspetti letterari): termini come fiata (volta) o appo (presso) non fanno parte dell’italiano odierno, per cui ne diventa necessaria la traduzione, né più né meno che se si trattasse di vocaboli stranieri.

 

a)     La necessità di una codificazione esplicita della grafia

 

Al problema precedente, che attiene alla trasformazione di ogni lingua in quanto “lingua viva”, se ne aggiunge, nel caso dei dialetti, un altro più specifico, legato alla corrispondenza tra segno grafico e lettura corretta del medesimo, o, come diremo più avanti, alla corrispondenza tra grafema e fonema[4]. Infatti il dialetto non solo è, al pari dell’italiano, una lingua viva, ma (almeno nelle nostre zone) è caratterizzato anche dalla presenza di fonemi non presenti nell’italiano (si pensi, tipicamente, alla /ö/ ed alla /ü/), fonemi che devono in qualche modo essere rappresentati in grafia.

Poiché il più delle volte manca un codice esplicativo che indichi l’esatta lettura da attribuire ai segni grafici usati, testi anche relativamente recenti possono risultare non più correttamente leggibili anche quando ne permane la comprensibilità. Il problema tende a diventare privo di soluzione quando alla mancanza del codice esplicativo si somma la scomparsa dell’autore o di testimoni coevi in grado di sopperire fornendo oralmente le giuste coordinate di lettura. In altre parole, un libro scritto senza l’indicazione delle regole grafiche usate, oppure affidandosi “all’orecchio” o a grafie approssimative o intrinsecamente incoerenti, corre il pesante rischio “di morire con l’autore”, o comunque di sopravvivergli di poco, se non dal punto di vista della comprensione quanto meno da quello dell’esatta lettura. La (breve) storia della letteratura dialettale novarese ci fornisce in materia un esempio paradigmatico. Il primo volume ad oggi conosciuto dedicato ai dialetti del “novarese” è “I parlari del Novarese e della Lomellina”, del Rusconi[5]. Il testo, del 1878, riporta un’ampia raccolta di brani di varie località, fra cui, per ognuna di esse, una versione della Parabola del Figliol Prodigo. Rusconi chiese ai propri informatori una traduzione di questo brano nelle rispettive varianti, ad evidenti fini comparativi[6], ma solo eccezionalmente sono riportate nel volume le regole di grafia adottate dall’informatore. Questo contribuisce certamente a far sì che anche parlanti anziani stentino oggi a riconoscere (o non riconoscano affatto) quella che dovrebbe essere la parlata della propria città o del proprio paese in una versione risalente a pochi decenni prima che giungesse loro, cioè a distanza di un intervallo di tempo che non giustifica assolutamente variazioni così rilevanti[7].

b)     La necessità di una grafia unica

 

La necessità di una codifica esplicita della grafia si ripropone poi sotto altri due aspetti, entrambi fondamentali:

1.      incoerenza sincronica fra differenti autori: l’assenza di un codice di regole cui fare riferimento fa sì che autori fra loro contemporanei scrivano in modo diverso pur esprimendosi nella stessa variante, con tutte le conseguenze negative che ciò comporta in termini di confusione (specie fra chi padroneggia meno bene la variante o fra chi ad essa si vuole accostare dall’esterno, e poi in termini di esportazione ed in particolare di insegnamento della medesima; senza contare i problemi di individuazione della esatta pronuncia di cui si pongono così le basi, secondo quanto già detto);

2.      incoerenza diacronica nell’ambito di uno stesso autore: la stessa assenza di un codice che funga da punto di riferimento costante conduce gli autori a mutare – e non necessariamente una sola volta... – la propria grafia nel corso degli anni, con inevitabili ulteriori confusioni; il rischio tende a diventare certezza man mano man mano che si passa a considerare autori la cui produzione letteraria copre archi temporali via via più estesi[8].

E’ proprio in una situazione di questo genere che versa attualmente il dialetto di Novara. Oggi gli autori (quasi tutti dediti esclusivamente alla poesia) si rifanno come testo normativo di riferimento alla Grammatica di Turri[9], ma con lievi oscillazioni diffuse e con la presenza di eccezioni e variazioni di grafia anche tra autori di primo piano (Genocchio, Tencaioli). Lungi dall’essere interpretata come una via consolare romana, capace di indicare nettamente, in ogni istante, il preciso percorso cui attenersi, la Grammatica di Turri è oggi vista come una sorta di via Francigena, lungo la quale ciascuno si sente libero di compiere deviazioni più o meno ampie che di volta in volta divergono per poi tornare ad incrociarsi, a sovrapporsi per un tratto, a divergere... Che poi i protagonisti di questa variabilità spesso non siano consci del loro allontanarsi da Turri (o almeno non lo siano pienamente) non fa che aggravare – e di molto – il problema[10].

Anche se in teoria sono ipotizzabili situazioni in cui di una medesima variante esistono più grafie, ognuna delle quali dotata di un codice esplicito[11], e se va riconosciuto che tali situazioni sarebbero comunque preferibili a quelle contraddistinte dalla pura e semplice assenza di codificazioni di riferimento, la coesistenza di una pluralità di grafie codificate lascia ciò nondimeno insoddisfatti. La sensazione sarebbe quella di trovarsi a dir tanto a metà del guado, in particolare per i problemi di insegnamento cui si andrebbe incontro: posto che dal nostro punto di vista l’insegnamento costituisce uno snodo fondamentale in qualunque progetto di “salvataggio” linguistico, si dovrebbe infatti decidere quale tra le grafie privilegiare a questo scopo (quale grafia insegnare concretamente, insomma), dopo di che si porrebbe ipso facto il problema di come giustificare “teoricamente” la sopravvivenza delle altre grafie: mancando il più delle volte una “storia letteraria” della specifica variante a supporto delle grafie “altre”, queste rimarrebbero di fatto in vita solo in virtù delle resistenze unilaterali dei rispettivi sostenitori. In sintesi ci sembra evidente che una situazione di utilizzo contemporaneo di più grafie per una stessa variante ha senso al più in via transitoria, come tappa intermedia verso l’unificazione.

 

c)     L’assenza di un “ente normante” riconosciuto

 

Se gli svantaggi dovuti alla mancanza di codifiche esplicite e di una grafia unica (almeno come prospettiva) per una singola variante dovrebbero a questo punto essere evidenti a tutti, meno facile è il riuscire ad uscirne. Non esiste infatti per il dialetto novarese (né per i dialetti in generale) un “ente normante” riconosciuto come tale dagli autori interessati: manca insomma per le nostre varianti qualcuno che svolga la funzione che per la lingua nazionale è riconosciuta alla Accademia della Crusca. Da ciò si deduce di solito che una unificazione grafica, non essendo imponibile “dall’alto”, può essere raggiunta solo “dal basso”, cioè previo accordo (se non di tutti, almeno) di una parte significativa degli autori. Ci permettiamo di non essere del tutto d’accordo. Certo, un eventuale gentlemen aggreement fra chi scrive sarebbe la via più auspicabile, ma è il caso di sottolineare che le esperienze a noi vicine hanno mostrato come si possa (e sorge la tentazione di aggiungere: e in certe condizioni si debba) “forzare” la situazione. Così nella ripresa della grafia cherubiniana a Milano non è certo stata estranea la spinta data dai concorsi organizzati dal Circolo Filologico Milanese, concorsi che, appena assestatisi e consolidatisi, hanno cominciato a richiedere ai partecipanti “quella” particolare grafia, pena la non ammissione ai concorsi stessi. Analogamente, sul versante piemontese non si può non cogliere la ricaduta, in termini di scelte di grafia, del fatto che molti concorsi letterari, e spesso quelli di maggior prestigio e tradizione, richiedano come conditio sine qua non la grafia “normalizzata”. Se ne deduce che uno stimolo (non certo un’imposizione) dall’alto può – e in talune circostanze forse “deve” – essere dato.

 

d)     L’improponibilità delle grafie “ingenue”

 

In tutti i casi rimane insoluto il vero problema: come costruire questa grafia unica?

Cominciamo subito sgombrando il campo da una tentazione “ingenua”, dietro cui pure si riscontrano a volte resistenze profonde. Non è raro, soprattutto laddove non esiste tradizione letteraria e particolarmente fra chi si dedica solo occasionalmente alla stesura di testi brevi, sentirsi dire: “Perché farsi tanti problemi? Io scrivo il mio dialetto così come lo pronuncio, come «lo sento»!”. Senza voler lasciare la risposta alla constatazione empirica che queste stesse persone si trovano poi, a distanza di pochi anni o magari anche solo di qualche mese, a non capire più ciò che essi stessi avevano scritto, ci permettiamo di sottolineare altre due circostanze, ognuna delle quali ci pare bastevole ad illustrare gli inconvenienti di una simile impostazione.

1.      Accettare che ognuno scriva una parlata “come la sente” significa legittimare l’orecchio di ciascuno, senza ulteriori possibilità di accordo: due parlanti che pronuncino una stesso termine in modi lievemente differenti possono giungere – e a quel punto, entrambi in modo pienamente legittimo! – a optare per grafie anche del tutto divergenti: si pensi p.es. alla “vera” (?) pronuncia di -b, -d, -g, -v in fine di parola, o a quanto certe consonanti suonino “marcate” in analoga posizione[12]. E ognuno può verificare, anche con una ricerca empirica di limitate dimensioni, che la pronuncia di una medesima variante è sempre caratterizzata da oscillazioni nel passare da un parlante all’altro (quanto meno in funzione dell’età, se non anche della zona del paese): le micro-oscillazioni di pronuncia all’interno di ciascuna parlata locale sono quindi un tratto pervasivo e costante di ogni dialetto, anche in paesi di ridotte dimensioni. Il problema assumerebbe quindi dimensioni rilevantissime.

Inoltre rimarrebbero insolute – e quindi, di fatto, alla mercé dei gusti personali – situazioni come l’utilizzo della -h- iniziale piuttosto che dell’accento per alcune persone dell’ausiliare avere: p.es. cosa scegliere fra “mi igh ho fam”, “mi i gh’ho fam”, “mi igh ò fam”, “mi i gh’ò fam”, “mi i gò fam” (e non sarebbe difficile sbizzarrirsi in varie altre proposte...)? In ultima analisi si finirebbe per fare della grafia un problema di gusti, ovvero, posto che de gustibus non est disputandum, per abbandonare anche a livello teorico qualunque speranza di addivenire ad una unità grafica purchessia.

2.      Dovrebbe del pari suscitare una certa inquietudine, non fosse che per motivi statistici, la constatazione che nessuna lingua al mondo è scritta totalmente “come si pronuncia”. E’ questa una affermazione che di solito non manca di suscitare meraviglia: siamo così abituati a scrivere in italiano che non vediamo neppure più i suoi trabocchetti, pur numerosi ed insidiosi. Eppure anche l’italiano, per quanto in misura non paragonabile p.es. a quanto accade in inglese[13], è lontano dalla situazione “teoricamente ottimale” di corrispondenza biunivoca tra fonemi e grafemi, cioè dal far corrispondere ad ogni suono un segno grafico e viceversa. P.es. il suono delle lettere -c- e -g- è dolce (palatale) o duro (velare) a seconda della vocale che le segue (p.es. bocca vs. boccia, cane vs. cene), e -s- e -z- presentano variazioni decisamente più difficili da interpretare in modo corretto e di fatto lasciate alle differenti pronunce regionali[14]; ancora, si pensi alla differente pronuncia di -gl- in maglia e in glicine.

Anche al di là delle oscillazioni regionali (che possono essere considerate come una “patologia”), uno stesso grafema può quindi “fisiologicamente” rappresentare più fonemi.

Ma si registra anche la situazione contraria: il suono velare della -c- (/k/), quando seguita da «u + altra vocale» è reso ora con -c- ora con -q-, secondo scelte che obbediscono a motivazioni etimologiche, non fonologiche (p.es. cuore vs. quote), e la variabilità si ripercuote sul raddoppiamento del fonema (p.es. taccuino, tacquero, soqquadro), mentre solo raramente si ha anche diversità di pronuncia (p.es. cui vs. qui).

 

e)     Il criterio del “rigore scientifico” ed i suoi limiti

 

Lasciati così alle spalle senza rimpianti gli spontaneismi grafici, e pienamente consci della necessità e importanza della convergenza verso una grafia unificata, affrontiamo dunque il problema della elaborazione della grafia con quel “rigore scientifico” che già Turri diceva doversi usare nello studio del dialetto[15].

Ed apprestiamoci a subire una parziale ma pur sempre sgradevole delusione.

“Sarebbe bello” se la sola applicazione corretta del “metodo scientifico” (posto di individuarne uno solo, o uno preferibile agli altri sotto tutti i punti di vista...) bastasse a portare ad un risultato univoco in termini di grafia. O almeno ci semplificheremmo di molto le cose se potessimo pensare di utilizzare il “metodo scientifico” come se fosse una bilancia sui cui due piatti confrontare via via le varie proposte in campo, individuando ogni volta quella con maggiore “peso”, con maggiore contenuto in termini di “scientificità”. Certo, ci sono casi (e non sporadici, purtroppo) in cui il metodo funziona: non è raro infatti imbattersi in proposte grafiche intrinsecamente incoerenti che non reggono ad alcun vaglio scientifico[16]. Ma, scartate queste, non ne rimane una sola, bensì (almeno potenzialmente) parecchie. E quindi volendone individuare una come migliore o preferibile, il problema della scelta – sia pure all’intermo di un insieme più ristretto – rimane[17]. C’è chi sostiene che in realtà, giunti a questo punto, la scelta fra le candidate rimaste in gara avviene di nuovo in base ai gusti personali. Non si può negare che a volte il sospetto ci sia, ma – a parte che ci sembra un epilogo così poco... scientifico da negare il senso stesso del procedimento che gli sta alle spalle – resta il problema di quella necessità di una conversione verso una grafia unica che di nuovo diventerebbe obiettivo irrealizzabile.

 

f)       La necessità di esplicitare i “fini”: a cosa dovrà servire la grafia?

 

Quel che ci serve a questo punto è un qualche criterio razionale (e non meramente emotivo) sulla scorta del quale assegnare la palma della migliore ad una fra le grafie “scientificamente plausibili” rimaste in lizza.

Esiste, o almeno ha senso ipotizzare che esista, un criterio siffatto? A nostro avviso sì, a patto di non ricercarlo all’interno della grafia, ma fuori da essa. La grafia – qualunque grafia – infatti è un mezzo, non un fine: una grafia “serve” (almeno potenzialmente) a qualcosa. Ma questo “qualcosa” di regola non è mai esplicitato da chi si occupa di costruire la grafia, se non in termini così generici (vale a dire con frasi tipo “salvare il dialetto”) da non fornire in effetti alcuna risposta operativa (va bene, salviamo il dialetto: ma come?! Con quali iniziative? E in tali iniziative quale ruolo verrà affidato in concreto alla grafia?).

Crediamo che se, tanto – ex ante – nell’elaborare una grafia quanto – ex post – nel valutarla, si chiarissero dettagliatamente i fini, e quindi i connessi usi, che la grafia sarà chiamata a perseguire, gran parte (se non tutte) le diatribe sulle differenti grafie – almeno tra quelle dotate di una consistente base scientifica – cesserebbero di colpo, ed il dibattito si sposterebbe focalizzandosi sul “vero” problema: cosa si intende fare per la parlata locale, e quindi come si intende usare in concreto la grafia.

 

g)     I problemi delle grafie “vicine a come si legge”

 

Per chiarirci le idee, cominciamo a porci due domande fondamentali:

1.      la grafia è pensata per chi conosce già quella parlata o per chi la vuole imparare?

2.      la grafia è pensata per leggere o per scrivere?

Si obietterà che si tratta in entrambi i casi di false alternative: almeno potenzialmente una grafia si rivolge a tutti e deve ovviamente servire tanto a leggere quanto a scrivere. Vero. Ma, ciò nondimeno, se guardiamo alle grafie che vengono concretamente messe in campo appare subito chiaro come spesso esse vengano elaborate in un’ottica che privilegia fortemente un aspetto (o una coppia di aspetti) rispetto agli altri. In particolare, grafie che, come quella proposta dall’ultimo Turri, vanno marcatamente nella direzione di scrivere “vicino a come si legge”, tanto da far saltare l’univocità della rappresentazione grafica dei singoli termini (facendone invece dipendere la scrittura – così come la pronuncia – dal termine che segue, e dando con ciò la stura ad un imbarazzante dilagare di allomorfismi, la cui gestione non potrà che risultare a dir poco problematica), sono con ogni evidenza pensate per agevolare al massimo la LETTURA di un brano da parte di chi NON SA quella parlata. Lo sforzo di queste grafie sembra quello di essere per quanto possibile auto-esplicative, auto-evidenti. E il fatto che si rivolgano a chi non conosce la parlata locale è sicuramente positivo. Ma l’apprendimento della parlata passa solo attraverso la lettura di brani o si dovranno approntare anche (o soprattutto) altri strumenti (in primo luogo una grammatica)? E che succede poi quando i nostri neofiti saranno chiamati non più a leggere qualcosa già scritto da altri ma a scrivere in prima persona? Grafie come queste corrono il fortissimo rischio di essere tanto facili “da leggere”[18] quanto difficili “da scrivere”: se la grafia di ogni singola parola non è più univoca, chi non è già guidato dall’orecchio si trova di fronte ad un ginepraio di regole inestricabile!

Oltre a questo, ci sono poi due problemi di carattere ancor più generale:

1.      più la grafia tende a seguire dappresso la pronuncia e più si scontra col fatto, già rilevato, che la pronuncia stessa presenta oscillazioni da un parlante all’altro, anche nell’ambito della medesima variante: il rischio che ne deriva è

Æ      di scivolare di nuovo nella situazione spontaneistica in cui ognuno scrive una frase “come la sente” (sia pure con qualche regola generale condivisa)

Ä      oppure, all’opposto, di costringere tutte le pronunce diverse entro una camicia di forza che sarà inevitabilmente sentita da molti come illegittima, e come tale rifiutata.

2.      più la grafia tende a seguire dappresso la pronuncia e più finisce per complicarsi caricandosi di segni diacritici: ciò significa non solo che diventa più facile fare errori nella battitura dei testi, ma che di fatto si formerà una énclave di “sacerdoti della grafia”, cui gli altri aspiranti scrittori si rivolgeranno, rinunciando in pratica ad apprendere compiutamente a scrivere (e limitandosi – se va bene... – a saper leggere).

Riteniamo – e lo diciamo chiaro – che il fine di rappresentare una grafia in modo “il più vicino possibile alla pronuncia” sia

a.      pericoloso (per gli effetti collaterali sopra esposti),

b.     pressoché irraggiungibile (si veda quanto detto nella nota 1: come trasporre in grafia tutti quegli aspetti legati all’intonazione che, anche a prescindere da ogni altro aspetto, permettono di cogliere al volo che p.es. una persona parla “con accento piemontese”)

c.      e per di più anche inutile: una grafia che persegue al massimo grado questo obiettivo, infatti, esiste già, è inattaccabile dal punto di vista della scientificità, e per di più gode (almeno fra gli esperti) di una notorietà incomparabilmente superiore a qualunque proposta si possa elaborare a livello locale. Stiamo parlando ovviamente dell’alfabeto fonetico internazionale (I.P.A.: International Phonetic Alphabet), che è stato elaborato proprio al fine di trascrivere al meglio l’esatta pronuncia di una data parola. A chi obietta che il ricorso all’alfabeto fonetico pone rilevanti (se non insormontabili) problemi pratici, rispondiamo che comunque – secondo quanto già argomentato al paragrafo 1 – il compito stesso di riprodurre al meglio una parlata si può oggi agevolmente risolvere con una documentazione audio (o, meglio ancora, audio-video), e che anzi non si vedono motivi per non demandarlo in toto a queste tecniche, come del resto si fa – e non certo da oggi!! – per tutte le “lingue”[19].

Prima di procedere indicando quali sono gli scopi per cui intendiamo utilizzare la grafia che proponiamo, è utile soffermarci ancora un attimo sugli “effetti collaterali” cui una grafia “troppo” vicina alla pronuncia può dar luogo.

Abbiamo già fatto cenno al problema della “vera” pronuncia di -b-, -d-, -g- e -v- quando queste consonanti costituiscono l’ultima lettera della parola: in molte varianti della nostra zona si registra infatti un fenomeno, noto come “assordimento”, che porta a pronunciare almeno tendenzialmente la -b- come -p-, la -d- come -t-, la -g- (sia “dolce” che “dura”) come -c-, e la -v- come -f-[20]. Chi sostiene la necessità di grafie molto vicine alla pronuncia propone quasi sempre di scrivere appunto queste consonanti “come si pronunciano”. Senza entrare qui negli specifici problemi collaterali cui una simile linea di condotta dà luogo, ci preme sottolineare subito come questa scelta – apparentemente semplificatrice – venga invece a conti fatti “pagata” pesantemente quando si giunge al momento – per noi fondamentale, come questo stesso lavoro sta a testimoniare – di delineare le regole grammaticali che governano una parlata e fanno sì che essa non sia semplicemente un coacervo incoerente di parole. Se infatti si decide di scrivere p.es. “lach” per “lago”, così come “sach” per “sacco”, risulta poi impossibile dare una regola in base alla quale prevedere che i diminutivi e derivati di “lach” fanno p.es. “laghèt” mentre da “sach” si ha p.es. “sachèt”: questi comportamenti diventerebbero cioè “anomalie”, “eccezioni” che finirebbero in un elenco interminabile e di memorizzazione più che problematica[21]. L’alternativa di NON riportare in grafia gli assordimenti, invece, permette di risolvere il problema in modo molto più semplice: l’unica nozione da imparare è che “-b, -d, -gh, -gg e -v quando sono alla fine di una parola si leggono «sorde», cioè, rispettivamente, -p, -t, -ch, -cc e -f”[22].

Analogo – anche se, curiosamente, molto meno “sentito” – il problema della “vera” pronuncia della -n in finale di parola: “dentale” (come in italiano) o “faucale” (come nella desinenza -ng dell’inglese e in parole italiane quali “fango”)? Vedremo infatti che, all’interno di una medesima variante, si può riscontrare una certa variabilità anche sotto questo aspetto, con pronuncia tendenzialmente più faucale (o più attenuata) negli anziani e più dentale nei giovani. Solo in situazioni molto particolari[23] accetteremo di riportare in grafia la distinzione.

 

2.      I “perché” della nostra grafia

 

Dopo aver analizzato, crediamo con sufficiente dovizia di particolari, le proposte “altrui”, è giunto finalmente il momento di passare ad illustrare la nostra grafia, cosa che faremo a partire dal prossimo capitolo.

Prima però, e coerentemente con le premesse fin qui poste, ci sembra necessario illustrare i “fini” che stanno dietro alla grafia che ci accingiamo a proporre. E’ questo, a nostro avviso, un passaggio fondamentale, perché chi non fosse d’accordo con la visione complessiva del “problema dialetto” in cui i suddetti fini si inseriscono (e quindi anche sul “cosa fare” per una variante locale), potrà con una certa facilità non essere d’accordo neppure con le proposte grafiche studiate in funzione di tali fini.

Gli obiettivi (e le conseguenti caratteristiche) della grafia che andremo ad illustrare sono essenzialmente:

1.      E’ cruciale la ricerca della massima economicità grafica (quindi del ricorso al minor numero possibile di segni diacritici – vale a dire accenti, umlaut, ecc.) nei limiti in cui questo non renda arbitraria la lettura. Ciò

Æ      sia al fine di evitare (per quanto possibile) la formazione di “sacerdoti della grafia”,

Ä      sia per arrivare a disporre di una grafia adatta alla scrittura in prosa (prosa che è il vero “banco di prova” di qualunque grafia[24]).

2.      La ricerca della suddetta economicità prevede esplicitamente che si diano al potenziale lettore delle “istruzioni per una corretta lettura” sulla base delle quali poter poi leggere correttamente i testi[25] (come avviene – almeno “quando va bene”: cfr. il caso dell’inglese... – per le “lingue” straniere): p.es. “tutte le volte che una -e- si presenta senza accento è da leggere chiusa”. Anche le suddette istruzioni devono rispondere a criteri di economicità (altrimenti la stessa economicità della grafia sarebbe solo apparente).

3.      La grafia deve inoltre aiutare a mettere in luce le caratteristiche strutturali e ricorrenti della parlata, in quanto ciò risulta funzionale alla elaborazione delle regole grammaticali e sintattiche necessarie per costruire una Grammatica[26].

4.      Proprio l’elaborazione di una Grammatica è ritenuta elemento cruciale (unitamente e non alternativamente all’apprendimento tramite ascolto) tanto nella formazione di nuovi parlanti quanto nel supportare, nei casi di dubbio, chi già padroneggia, a vari livelli, la parlata.

5.      La grafia guarda quindi prioritariamente (anche se non certo esclusivamente) a chi non padroneggia (o padroneggia in modo approssimativo) la parlata, e cerca di rispondere a problemi metodologici legati all’insegnamento, con particolare riferimento alle scuole[27].

6.      Tale insegnamento si dovrà comporre di (almeno) due momenti:

Æ      un momento di studio delle regole, legato all’elemento della scrittura

Ä      ed un momento di affinamento della pronuncia, lasciato all’apprendimento orale per assorbimento dai parlanti.

 

A tutti i punti precedenti, che ci paiono validi in generale (cioè a prescindere dal caso specifico delle varianti “novaresi”) aggiungiamo poi una caratteristica specifica della situazione di Novara, caratteristica tanto contingente quanto fondamentale:

 

La grafia che presentiamo si propone di fare da “ponte” fra le grafie utilizzate nella letteratura novarese[28] e la grafia normalizzata della Lingua Piemontese (“piemontèis comun”: pron. “piemuntèis cumǜn”): è elaborata al preciso scopo di dotare le varianti novaresi di una grafia interna che da un lato si discosti il meno possibile dalla (pur non univoca) tradizione grafica locale[29] e dall’altro consenta di volgere i testi in grafia normalizzata ricorrendo in larga o larghissima misura a procedure automatizzate da affidare ai normali personal computer oggi di uso comune.

 

Questo nella convinzione che sia cruciale aprire ciascuna variante locale alla conoscenza delle parlate confinanti, sia a fini immediati (partecipazione a concorsi di prestigio) che di più ampio respiro (reciproca fecondità dei contatti culturali e, in ultima analisi, sopravvivenza stessa della singola variante[30]).

 

3.      Un possibile problema: la necessità di “documentare” una variante

 

Pur ritenendo più che auspicabile che l’attuale trend, che nelle nostre zone vede le parlate dialettali perdere progressivamente terreno, si arresti e si inverta, ci sembra utopistico trincerarci dietro questa speranza-obiettivo senza guardare in faccia la realtà odierna e gli scenari ad oggi, purtroppo, più verosimili.

Anche se per il momento il numero dei dialettofoni non si può ancora definire propriamente esiguo, il mancato ricambio generazionale rischia sempre di più di portare all’estinzione varianti che non solo non sono mai sono state oggetto di studio, ma di cui addirittura potrebbe non rimanere alcuna traccia documentale. In questo senso il problema di salvarne delle testimonianze potrebbe diventare sempre più urgente.

In una prospettiva meno traumatica, il problema si pone anche in relazione alla necessità di salvare dall’oblio pure quelle variazioni cui ogni dialetto, in quanto lingua viva, va incontro con il passare del tempo. Supponiamo per esempio di imbatterci in un anziano che parla ancora il dialetto di un certo paese in maniera arcaica: quella che abbiamo di fronte in quel caso è una testimonianza “da raccogliere al volo”, prima che sia troppo tardi, a maggior ragione se la variante di quel paese non è mai stata documentata in precedenza.

In questo caso il procedimento di codificazione di una grafia potrebbe richiedere “troppo” tempo (specie se la variante presenta caratteristiche sintattiche o anche solo fonetiche spiccatamente particolari), e inoltre la persona entrata in contatto con il (potenziale) informatore potrebbe non avere affatto né le conoscenze tecniche sufficienti a procedere in quel senso né la possibilità di ricorrere in tempo utile a qualcuno in grado di fornirgli le indicazioni necessarie.

Qui il ricorso alla registrazione appare non solo più semplice, ma anche senz’altro più efficace, dato che la registrazione (posto che sia di qualità sufficiente: ma questo è un problema tecnico, non metodologico in senso stretto[31]) permette di trascrivere in un secondo tempo la testimonianza raccolta, e quindi – volendo – di procedere in quella sede alla codifica grafica della variante.

Il problema rischia di diventare tristemente attuale in zone che – come il Novarese – sono caratterizzate contemporaneamente da una pesante sottovalutazione dell’importanza delle parlate locali (figlia di una coscienza linguistica scarsa quando non inesistente) e da un’elevata eterogeneità linguistica (non solo la parlata di ciascun paese è diversa da quella dei centri vicini, ma non è raro che queste differenze – peraltro sempre sopravvalutate a livello di percezione locale – siano davvero significative).

Non siamo a conoscenza di statistiche ufficiali (ammesso e non concesso che ve siano...), ma temiamo di non sbagliare affermando che solo una piccola parte delle varianti parlate in provincia di Novara abbia prodotto ad oggi testimonianze linguistiche significative. Ne deriva che nella stragrande maggioranza dei casi la necessità di raccogliere la parlata dalla viva voce dei suoi testimoni privilegiati risulta oggi prioritaria. Anche qui tuttavia, almeno se non ci si vorrà limitare ad una “documentazione di ciò che era” e ci si porrà invece anche l’obiettivo di rilanciare la parlata, il momento di elaborazione della grafia non potrà che costituire lo sbocco naturale della fase di raccolta delle testimonianze, e anzi trarrà particolare efficacia proprio dal poter affiancare il parlato alla sua trascrizione.

Sentiamo però il dovere di segnalare un grosso rischio che si corre decidendo di seguire questa via. Il ricorso al registratore (o, peggio, alla videocamera) risulta estremamente intrusivo, specie per persone anziane che abbiano scarsa confidenza con la tecnologia, e può influire pesantemente sul registro linguistico utilizzato dall’informatore, causando il ricorso ad italianismi vari, se non direttamente il passaggio all’italiano (ciò a maggior ragione se il ricercatore è percepito come persona estranea e/o “stüdià” [istruita]). Da questo punto di vista sarebbe senza dubbio preferibile registrare le conversazioni tra (poche) persone ignare e legate tra loro da rapporti di reciproca familiarità[32]. D’altro canto il problema dell’intrusività è connesso alla presenza del ricercatore in sé (indipendentemente dal fatto che costui si presenti con registratori, videocamere, ecc. ecc.), almeno se (come di solito accade) fra ricercatore ed informatore non esiste una forte familiarità pregressa.

 


 

[1] Si pensi solo al problema che si avrebbe cercando di rendere per iscritto le diverse inflessioni regionali (le inflessioni, N.B., non solo la pronuncia in sé) che caratterizzano i diversi “italiani regionali” presenti nella nostra penisola: e se dall’italiano si passa alle parlate locali, il problema non si riduce di certo...

[2] Altra e ben più complessa è la valutazione per quel che attiene alle garanzie di durata fornite dai diversi supporti (cartaceo, magnetico, digitale...). Qui ai progressi esponenziali che l’informatica va compiendo giorno dopo giorno si oppongono le granitiche convinzioni dei bibliofili ad oltranza, in dispute dove spesso il vissuto e la matrice culturale dei singoli finiscono per prevalere sulle argomentazioni proprie di un dibattito scientifico, con il rischio di scadere in una mera questione di gusti personali.

[3] Modernissimo, almeno da questo punto di vista, “Al cantunin Nuares” di Carlo Oglino, che già nel 1978 si rendeva conto dell’incapacità della grafia nel trasmettere compiutamente, “da sola”, le più minute inflessioni fonetiche di una parlata, ed abbinava al volume una audiocassetta in cui riprendeva – fra l’altro – alcuni brani contenuti nel libro (Carlo Oglino, “Al cantunin Nuares”, stampato presso Tipo-lito La Moderna, Novara, 1978). Dall’elenco “fonti edite e inedite” che chiude la raccolta postuma delle poesie dialettali di Sandro Bermani (“Sandro Bermani. Un poeta, una città. Poesie in dialetto novarese”, Ed. Interlinea, Novara, 2001) apprendiamo che anche il di poco successivo “Sandro Bermani, Dante Ticozzi. Due novaresi da non dimenticare. Nuara ’nt’al mè cassèt. Poesie inedite nel dialetto di Novara” (Realizzazione, coordinamento e commenti di Carlo Oglino, La Famiglia Nuaresa, Novara, s.d. ma 1979) sarebbe stato accompagnato da una audiocassetta: non stupisce, data la comune “regia” di Oglino e la vicinanza temporale con “Al cantunin nuares”. Sorprende invece in negativo che questi precedenti non abbiano praticamente trovato seguito, se non nelle due cassette audio allegate al terzo volume di “Gajà spitascià” (i tre volumi, curati da un gruppo di autori che varia via via, con la presenza costante del solo Angelo Belletti, sono stati stampati tutti presso La Moderna, Novara, rispettivamente nel 1978, 1984 e 1993). Non crediamo sia infatti da collocare su questa linea, se non molto parzialmente e diremmo quasi involontariamente, la già citata e più recente (2001) raccolta postuma delle poesie dialettali di Bermani: lì infatti la presenza del CD Rom allegato sembra dettata prioritariamente dalla volontà di documentare aspetti collaterali della vena artistica del Poeta (le sue performance musicali, in particolare) che non sarebbe stato altrimenti possibile far conoscere. Degno di nota, piuttosto, il recentissimo (2005) CD Rom “Parluma ai Nuarés”, proposto dall’Associazione Culturale Novarese – Gruppo Poeti e Cultori dialettali”, che contiene una raccolta di poesie recitate dagli autori. Qui tuttavia i problemi si rovesciano: c’è l’audio, ma manca il testo... Questa idea di un prodotto pensato innanzitutto per l’ascolto, e dove è la parte grafica a fare da supporto, non è un inedito per Novara: in un passato non recente (la datazione è problematica, ma risale almeno agli anni ’70) erano già stati proposti dischi in cui gli Autori recitavano proprie poesie. Tuttavia anche lì, almeno nei tre dischi a noi noti (“Renta ’l camin...” - l’unico con data: dicembre 1974 – e “Nuara da ier, Nuara d’incoeu”, entrambi con l’abbinamento Luisa Falzoni – Sandro Bermani, e “Nuara in dialètt”, con i “Cinq da Nuara” – Sandro Bermani, Malilla De Angelis, Luisa Falzoni, Giulio Carlo Genocchio, e Dante Ticozzi – più Giuseppe Tencaioli), mancano i testi, sostituiti da commenti in italiano.

[4] Il problema non è in realtà limitato solo al dialetto. In assenza di documenti audio-video, sono stati sollevati dubbi anche sull’esatta pronuncia della lingua latina, così che si discute se fagi [del faggio, i faggi, ...] vada letto fagi (con -g- dolce) oppure faghi (con -g- dura), o se rosæ [della rosa, alla rosa, le rose, ...] sia da leggere rose oppure rosae (pronunciando separatamente la -a- e la -e-). Nel caso dei dialetti tuttavia, come stiamo per mostrare, il fenomeno può avvenire entro lassi di tempo decisamente più brevi di quello che ci separa dalla classicità latina.

[5] Antonio Rusconi, “I parlari del Novarese e della Lomellina”, Topografia Rusconi, Novara, 1878 (oggi disponibile nella ristampa anastatica realizzata da Antonio Forni Editore, Sala Bolognese [BO], 1977). Da notare come il titolo dell’opera possa oggi suonare fuorviante in senso riduttivo: vi si trovano infatti largamente rappresentati i dialetti non solo del VCO ma anche della Valsesia.

[6] Non è questa un’idea originale di Rusconi. Al contrario, esiste un preciso precedente risalente a Napoleone Bonaparte: come ricorda Zuccagni Orlandini, “[...] il primo Napoleone, giunto all’apice della sua potenza e conoscer volendo i principali dialetti dei 130 Dipartimenti costituenti il suo vasto Impero, adottò il suggerimento datogli di domandare ai Prefetti la traduzione della parabola del Figlio Prodigo” (Attilio Zuccagni Orlandini, “Raccolta di dialetti italiani”, Firenze 1864, oggi disponibile nella ristampa anastatica realizzata da Antonio Forni Editore, Sala Bolognese [BO], 1975, pag. 8). E Zuccagni Orlandini era certamente noto a Rusconi, essendo stato lui a “commissionare” nel 1835 al Bianchini – secondo quanto afferma lo stesso Rusconi (pag. 93) – la traduzione in novarese di quel “Dialogo italiano tra un padrone ed un suo servitore” che costituisce ad oggi il più antico documento conosciuto scritto interamente nel dialetto di Novara.

[7] Ad onor del vero va detto che, nel caso del libro di Rusconi, più di un problema potrebbe essere dovuto anche alla bontà degli informatori, la cui rappresentatività rispetto alla parlata testimoniata è stata a volte messa in dubbio (p.es. nel caso di Romentino). La stessa identità degli informatori non è sempre certa: in due casi (Intra e Vespolate) l’informatore è infatti anonimo. E se nel caso di Intra la mancanza non è imputabile a Rusconi, che si limita a copiare (senza peraltro informare di ciò i lettori, e con variazioni di grafia...) dal “Saggio sui dialetti gallo-italici” di Bernardino Biondelli (Milano, 1853, oggi disponibile nella ristampa anastatica realizzata da Antonio Forni Editore, Sala Bolognese [BO], 1988), il caso di Vespolate sembra tutto addebitabile a Rusconi, che in ogni caso non avverte la necessità di spiegare l’anonimato dell’informatore, come invece aveva fatto Biondelli (“Avvertiremo ancora che la modèstia di parecchi traduttori non ci permise di pubblicarne il nome a piedi della versione rispettiva, come avremmo desiderato poter fare per guarentigia comune”: Biondelli, Cit, pag. 504). Rusconi riprende da Biondelli anche la versione della “Parabola” di Borgomanero, ma questa volta, oltre alla grafia, cambia anche l’autore cui la versione è attribuita (“Avv.° Romagnoli” invece di “Nicolò E. Cattaneo”)... Eppure Rusconi conosce di prima mano il testo di Biondelli, di cui critica (non senza ragione) l’inclusione dei dialetti valsesiani nel gruppo denominato da Biondelli come “Verbanese” (Rusconi, Cit., Introduzione, pag. XXVII). Anche più in generale l’opera di Rusconi appare metodologicamente datata: gli informatori sono infatti di regola avvocati, ingegneri, sacerdoti, ecc.: in una parola, le persone più istruite di ciascun paese, ovvero proprio le meno indicate a fare da informatori sul dialetto (in quanto più esposte alle influenze della lingua italiana). Certo, il livello di analfabetismo dell’epoca può in larga misura giustificare – o almeno aver reso inevitabile – la scelta, e inoltre gli interpellati potrebbero a loro volta aver fatto ricorso a informatori locali trascrivendone i racconti (circostanza che in qualche caso sembrerebbe essere davvero avvenuta, al punto che Rusconi inizia così la propria introduzione [pag. III]: “Essendomi, non è guari, lagnato con un amico, perchè troppo tardasse ad inviarmi una traduzione nel dialetto del suo paese, ond’io l’aveva incaricato, egli mi rispondeva: «Che vuoi? Par mandarti cosa più genuina, cerco la pretta frase sulle labbra de’ miei contadini [...]»”): ma allora dovremmo dedurre che non sappiamo chi sono in realtà i “veri” informatori. No: da un punto di vista strettamente metodologico il procedimento di Rusconi appare quanto meno carente.

[8] Ne è paradigmatico esempio proprio il volume su Bermani citato poco sopra: Bermani costituisce infatti un classico esempio di autore che mutò negli anni la propria grafia, per cui in sede di pubblicazione postuma delle sue poesie si pose il problema di riportare o meno queste evoluzioni. Per la cronaca, si scelse di non riportarle, privilegiando un criterio pratico, per così dire “editoriale”, ad uno di stampo più teorico-filologico.

[9] Carlo Turri, “Grammatica del Dialetto Novarese” (Famiglia Nuaresa, Composizione e stampa presso IGDA, Novara, 1973).

[10] Né si deve pensare che la situazione attuale sia quella di una cacciata dall’Eden. Non sembra a riguardo esserci mai stata alcuna “età dell’oro” per il dialetto novarese: almeno dal punto di vista dell’unità grafica, la letteratura della parlata cittadina non risulta aver mai conosciuto una condizione pre-babelica... Al contrario, e senza volerci addentrare qui in un’analisi storica che esula dai nostri fini e che ci porterebbe troppo lontano, le testimonianze raccolte e la stessa repentina sconfessione di fatto della pur pregevole Grammatica di Turri inducono ad ipotizzare già in antiquo l’esistenza di un deleterio mix di sottovalutazione del problema (forse avvertito, anzi, più oggi che non allora) e di contrapposizioni personali in cui il solo perdente sicuro è sempre il dialetto.

[11] Diamo qui per scontato che ognuna di queste grafie sia “scientificamente accettabile”: ma lo facciamo solo per semplicità e perché non abbiamo ancora affrontato esplicitamente il problema della “scientificità” come requisito da richiedere ad una grafia (vedi paragrafo apposito). In ogni caso la situazione ora ipotizzata non va confusa con quella (reale) tratteggiata appena sopra: per gli attuali seguaci di Turri l’unico codice esplicito rimane la Grammatica di Turri, nessuno di loro è solito chiarire nei dettagli i propri punti di distacco da quella grafia. Perfino il ben noto (e ad oggi imprescindibile) dizionario di Oglino (Carlo Oglino, Dizionario popolare del dialetto novarese / Seconda edizione riveduta e corretta”, Grafica Novarese, San Pietro Mosezzo [NO], 1993), al termine delle ”Prefisse regole di lettura” finisce per rimandare “per la parte grammaticale necessaria alla composizione del discorso” (?) alla Grammatica di Turri: e tutto si potrà dire di Oglino fuorché che egli (anche a prescindere dai – purtroppo numerosi – refusi) scriva nel pieno e compiuto rispetto di Turri... Crediamo che in questa incapacità di valutare compiutamente l’effettiva aderenza delle proprie scelte di grafia ai dettami di Turri giochi un ruolo centrale il non aver mai pensato di affiancare alla pubblicazione della Grammatica un momento “didattico”, di illustrazione e chiarimento dei suoi contenuti ai potenziali destinatari: ma abbiamo appena ricordato come la Grammatica sia stata ben presto sconfessata, per cui...

[12] P.es.: ciav, ciavf o ciaf? Tüt o tütt? O ancora: la -n- in finale di parola va pronunciata nasale (come in italiano) o faucale (come nella –ing form inglese)? Per le soluzioni scelte a fronte di questi problemi si veda la trattazione ad essi relativa.

[13] Per l’inglese è noto p.es. che il gruppo -oo- viene di solito pronunciato -u- (p.es. spoon, roof): ma può anche essere letto come una -ó- stretta e prolungata (door) e perfino tendere alla -a- (blood).

[14] Un esempio classico è dato dalla pronuncia della parola “casa”, in cui la -s- è tendenzialmente pronunciata dolce (sonora) nell’Italia Settentrionale e aspra (sorda) nelle regioni del Centro-Sud.

[15] “Lo studio del dialetto deve essere impostato con rigore scientifico, sia mediante l’applicazione del metodo storico comparativo, sia mediante l’analisi strutturale”: Carlo Turri in “Corriere di Novara”, 30/01/1975, cit. in Gaudenzio Barbè, “Novara nelle vecchie carte”, Tipolitografia Artigiana, Novara, 1977, pag. 5.

[16] Intendiamo qui come “intrinsecamente incoerenti” quanto meno quelle grafie che rendono con grafemi diversi un medesimo fonema senza che ciò dipenda da qualche motivazione (esplicita e) plausibile. Si noti, par contro, come il ricorso a differenti grafemi per rappresentare uno stesso fonema non dia luogo – di per sé – ad alcuna incoerenza. E’ p.es. notorio che la lingua italiana rende il fonema /k/ con la consonante -c- davanti alle vocali -a-, -o- ed -u- (p.es. casa, buco, cura), e invece con il gruppo consonantico -ch- davanti ad -e- e a -i- (p.es. duchessa, chiodo): in questo caso la scelta del grafema dipende dalla vocale che segue, e non si ha incoerenza.

E’ sempre imbarazzante fornire esempi di errori riscontrati in autori cui non si può dare contestualmente anche la possibilità di difendersi, per cui sorge qui la tentazione di proporre situazioni di fantasia. Tuttavia in questo modo si potrebbe far pensare che il ricorso ad esempi costruiti ad hoc nasconda in realtà una sporadicità – quando non una totale assenza – di riscontri concreti, e che quindi il problema sia stato sollevato ad arte, pretestuosamente. Non senza un certo dispiacere andiamo perciò ad attingere esempi dall’introvabile “Vucabulari dal Burghlavisar e dla bassa nuaresa” di Pietro Sganzetta (Tipografia San Gaudenzio, Novara, 1991). Scorrendo il piccolo volume si vede p.es. che Don Sganzetta rende graficamente il suono /k/ in posizione finale di parola con una varietà di proposte che lascia quanto meno disorientati: bak [bastone per giocare alla lippa], gnoch [gnocchi, ottusi], bènq [banco], e perfino lac [lago] (a fronte di böc [buco]...). A scanso di fraintendimenti sul valore dell’opera citata sentiamo la necessità di sottolineare come anche questo Vucabulari, che pure è solo un piccolo glossario, assai incompleto e ricco di refusi e contraddizioni, basti da solo a mettere Borgolavezzaro in una condizione incomparabilmente migliore rispetto a quella della larga maggioranza dei nostri paesi e paesini, ancora in attesa di qualcuno che rediga studi sulla variante linguistica locale. A Don Sganzetta vanno poi riconosciuti, dal punto di vista della dialettologia, anche altri meriti, primo fra tutti l’aver scritto (in prosa: rara avis...) una storia del paese di grandissimo interesse linguistico.

Un passo successivo, sempre sul piano dell’analisi della “bontà” di una grafia in senso “scientifico” è poi la capacità della grafia stessa di dar luogo a frasi e periodi che si prestino ad una corretta analisi grammaticale (N.B.: grammaticale, non logica) senza doversi imbattere in alcun monstrum morfologico. Si tratta di un passo “successivo” nel senso che qui l’analisi si sposta dal piano della grafia e fonologia a quello – successivo, appunto – della morfologia e della sintassi. Ancora da Sganzetta possiamo citare p.es. curagadrè [corrigli dietro; che fra l’altro andrebbe comunque scritto con l’accento chiuso], dove si fondono in modo a dir poco discutibile un verbo ed un avverbio di luogo. O ancora: dum [così]. che lascia basiti fino a quando una provvidenziale frase esemplificativa non viene in nostro soccorso: “in dum bon = sono così buoni”: dum = d’un, allora... Ma, è bene chiarirlo, errori simili (o peggiori) si ritrovano in parecchi autori, non certo solo nel Nostro (né bastano, nel caso di Don Sganzetta, a sminuire l’importanza della sua opera, almeno fino a che ci sarà qualcuno in grado di evidenziarne i refusi e di dare alle stampe volumi con le appropriate correzioni: ma questo è un compito il cui mancato svolgimento non sarebbe certo da imputare a Don Sganzetta...).

[17] Ecco allora che se Turri è passato negli anni ad una grafia diversa da quella da lui stesso individuata nella Grammatica ciò non vuol necessariamente dire che una delle due è “peggiore” – quanto a “livello di scientificità – dell’altra.

[18] Facili da leggere, ma – si noti – non necessariamente altrettanto immediate da comprendere: p.es. “lach” è più vicino alla pronuncia corretta che non lagh, ma è anche meno evocativo e più difficile da ricollegare all’italiano [lago]...

[19] Sembra di essere di fronte qui ad uno dei non rari casi in cui, in virtù di pregiudizi irrazionali ed antiscientifici, si tende ad applicare al “dialetto” affermazioni che mai si prenderebbero in considerazione per una “lingua”: come non è raro sentire che “il dialetto si deve imparare da piccoli”, o addirittura che “non può essere insegnato”, così si finisce per non trattare la parlata locale alla stregua di qualunque “lingua” neppure dal punto di vista dei mezzi didattici necessari al suo insegnamento. In proposito si rimanda anche a quanto già detto nel primo paragrafo di questa stessa Introduzione circa le potenziali sinergie tra registrazioni audio-video e scrittura e circa l’esiguità di testi che ad oggi ne hanno fino in fondo approfittato.

[20] N.B. Ripetiamo, a scanso di grossolani fraintendimenti, che l’assordimento si verifica solo quando -b-, -d-, -g- e -v- si trovano in finale di parola. In realtà poi il fenomeno si presenta in modo pieno solo se la parola è pronunciata da sola: all’interno di una frase invece l’intensità dell’assordimento (o addirittura il suo stesso manifestarsi) dipende ulteriormente da come inizia la parola che segue. Torneremo in modo dettagliato su questo argomento.

[21] Come vedremo, anche la tentazione “ghiotta” di proporre come via d’uscita quella di “rifarsi all’italiano” e di costruire p.es. i gradi alterati (accrescitivo, diminutivo, ecc.) di un sostantivo facendo riferimento alla lingua nazionale  (per cui p.es. “lach” farebbe “laghèt” «perché in Italiano si dice laghetto») risulta a conti fatti metodologicamente inaccettabile oltre che anche praticamente inapplicabile.

[22] Non meno importante il fatto (che a questo punto dovrebbe risultare evidente) che non riportando gli assordimenti in grafia si taglia la testa al toro rispetto ai problemi legati alle piccole variazioni di pronuncia individuali.

[23] Vedi paragrafo sulla -n-.

[24] N.B. Questo non per sostenere una più che discutibile superiorità di genere, ma per mere questioni quantitative: i brani in prosa sono mediamente molto più estesi delle poesie, per cui una grafia complessa o pesante comporta inevitabilmente un moltiplicarsi degli errori ed un rallentamento nella stessa scrittura del testo.

[25] Del resto anche le grafie che cercano di essere auto-evidenti finiscono comunque per aver bisogno di note esplicative a corredo, non fosse che per l’inevitabile ricorso a grafemi non presenti in italiano ed alla conseguente necessità di chiarire a quali fonemi corrispondono tali grafemi.

[26] Ne è paradigmatico esempio il trattamento degli assordimenti secondo le modalità indicate al paragrafo precedente.

[27] Anche noi, dunque, ci rivolgiamo prioritariamente a chi padroneggia poco (o per nulla) la parlata locale: ma, a differenza di quanto ci sembrano fare le grafie tipo l’ultima di Turri, mettiamo sullo stesso piano il momento della lettura e quello della scrittura. Si obietterà: “Ma così non si danneggiano coloro che invece già parlano quel dialetto?” Rispondiamo con tranquillità di no: per chi padroneggia una parlata l’ostacolo viene piuttosto

ü       da resistenze psicologiche verso una certa grafia

ü       o dalla desuetudine alla lettura in quanto tale,

e ben raramente dalla grafia in sé, quale essa sia. Anzi, è tutto da dimostrare che costoro possano essere in qualche modo aiutati da una grafia carica di segni diacritici assenti o comunque desueti in italiano: p.es.: quante persone sanno “sulla sola scorta delle proprie nozioni di grafia italiana” che «è» si legge aperta ed «é» va invece pronunciata chiusa? A giudicare dalla mole di errori sistematici riscontrabili nelle grafie “ingenue”, diremmo molto poche... Del resto, prima ancora che al livello culturale del singolo, queste difficoltà sono riconducibili agli errori di pronuncia del nostro italiano regionale: p.es. troviamo scritto (e scriviamo) “perché”, “affinché”, ... , ma pronunciamo “perchè”, “affinchè”...

[28] Intendiamo qui come “letteratura novarese” quella che inizia con il gruppo dei “Cinq da Nuara” (vedi nota 2): siamo quindi già nel secondo dopoguerra. Va tuttavia sottolineato come, al contrario, per tutto il XIX sec. anche le testimonianze in Novarese ad oggi note sono scritte in grafie che, per quanto ondivaghe e contradditorie, richiamano da vicino le attuali grafie del Piemontèis Comun e del Milanese cherubiniano. E’ verosimile che dietro questi aspetti comuni stia l’attrazione esercitata dal Francese come lingua colta, ma resta il fatto, estremamente significativo, che fino al 1900 nessuno a Novara utilizzò mai né le “ö” né le “ü”, e che p.es. ancora nel 1905 il Corriere di Novara scrive “Biondin” (con una “o” da leggere “u”, quindi) per indicare il famoso bandito noto come “Biondino”. Sono le stesse convenzioni che troviamo ancora oggi tanto nel Piemontese quanto nel Milanese: pertanto, chi pretende di rifiutare queste grafie in quanto “estranee alla nostra storia” fa una affermazione assolutamente priva di fondamento, a meno di voler ridurre la storia di una parlata ai soli ricordi personali in materia, operazione quest’ultima talmente grossolana e rozza da non meritare commenti.

[29] Se ne salvaguardano in particolare due elementi portanti e ad oggi fortemente condivisi dagli autori (se non dai grammatici...): il trattamento degli assordimenti e quello dei fonemi -s- (sorda e sonora).

[30] Nessuna politica di salvaguardia linguistica “seria” può oggi essere intrapresa esclusivamente a livello di singolo paese o città, non fosse che per la mobilità territoriale che caratterizza (e ancor di più caratterizzerà in futuro) la nostra società. Se anche infatti un singolo paese riuscisse a rilanciare pienamente la propria parlata in un contesto territoriale dove però i paesi vicini avessero intanto abbandonato le proprie a favore dell’italiano (o comunque di un’altra lingua ritenuta veicolare in zona), tutti i contatti tra abitanti di paesi diversi avverrebbero giocoforza nella lingua veicolare (l’italiano o la lingua adottata come veicolare), per cui anche i risultati di quell’unica “isola felice” risulterebbero in definitiva effimeri.

[31] Sotto questo profilo ricordiamo che è bene avere sempre presenti i limiti dello strumento con cui si opera: in generale – almeno se si utilizzano le apparecchiature normalmente in commercio – le registrazioni

ü       di gruppi troppo numerosi,

ü       o in cui le voci si sovrappongono frequentemente,

ü       o ancora dove ci sia la sistematica interferenza di rumori di fondo

portano ad ottenere risultati scadenti in sede di trascrizione e sono quindi, nei limiti del possibile, da evitare.

[32] SI pone però così un ovvio problema etico, relativo alla violazione della privacy e, più in generale, della norma deontologica secondo cui le persone di cui si raccoglie la testimonianza linguistica dovrebbero partecipare volontariamente alla ricerca. Non ci addentriamo qui in questi problemi, ma ci limitiamo a richiamare l’attenzione sulla necessità di farvi fronte.