Lezione sulla Metrica
trattata dal Proff.
Gianfranco Pavesi

 

Premessa

 

Questa trattazione non ha alcuna ambizione di esaustività nei confronti delle tematiche esposte, ma si propone solo di fornire un quadro generale di riferimento. Tuttavia, ancor prima di affrontare un discorso tecnico introduttivo, riteniamo necessario proporre una breve riflessione di tipo teorico.

Oggi si riconosce piena e totale dignità anche ai versi liberi, per cui il ricorso alle (ed il rispetto delle) regole qui trattate non costituisce più, in generale, condizione necessaria (mentre mai è stato condizione sufficiente) per scrivere una composizione poetica di buon livello. Addirittura, se guardiamo al di fuori dei “dialetti”, non possiamo non notare come molti ritengano superato lo scrivere “in rima”. Pur non volendo addentrarci in questa diatriba, dobbiamo notare come non sia né positivo né casuale che essa abbia finora solo sfiorato gli autori legati ad una dimensione “vernacolare” delle parlate locali: almeno nei (purtroppo numerosi) casi in cui l’adesione a determinate scelte stilistiche appare non come il legittimo esito di un confronto e di un dibattito, ma piuttosto come una scelta preconcetta, tale posizione finisce per rappresentare semplicemente un ulteriore esempio dell’incapacità di uscire da una visione esclusivamente passatista della parlata locale.

Per converso, dobbiamo anche chiarire subito che l’affermazione, fatta sopra, secondo cui i “versi liberi” sono in larga misura sciolti dal sistema di regole qui illustrato, non va interpretata – come invece fanno alcuni – considerando i versi liberi come una poesia “senza regole”, in cui dunque “tutto è concesso” a patto di... andare a capo prima dello spazio fisico a disposizione sulla riga. Scrive in proposito Camillo Brero: “«Vers lìber» a veul nen dì «pròsa» e gnanca a veul nen dì «vers disordinà» o «vers disarmònich e disarmonios» [...] Almeno an poesìa as dev nen rompe l’armonìa natural che ògni vers (pròpi përchè vers) a dev avèj. La pressa o l’afann ëd dì e ’d dé ’l mëssagi ch’a cissa andrinta a dev nen sofoché l’esigensa dë spònzlo ant la manera pì agreàbil e pì armoniosa. Ëdcò ël vers lìber, donca, a l’ha soe régole [...] ch’a-j manten-o l’armonìa ch’as manifesta con na cadensa e n’acentassion rìtmica”[1].

 

Introduzione

 

Almeno nella sua accezione più tradizionale, la poesia è legata a rime, metri e ritmi. Le poesie si compongono infatti di versi, ciascuno dei quali

ü      è costituito da un numero di sillabe non casuale,

ü      rispetta determinati andamenti ritmici (colloca cioè le proprie accentazioni in determinate posizioni)

ü      e può fare rima con gli altri secondo schemi più o meno complessi.

Quest’ultimo aspetto della rima, tuttavia, non è strettamente necessario neppure nella poesia tradizionale. In sua assenza si parla

ü      di versi “sciolti”, se rimane l’elemento metrico: di solito si tratta di endecasillabi,

ü      o addirittura di versi “liberi”, nel caso di versi metricamente diversi.

I versi sono poi raggruppati in strofe (p.es. le terzine dantesche) e le strofe, a loro volta, in metri (p.es. il sonetto, composto da due quartine seguite da due terzine).

Tra le caratteristiche indicate, dunque, la rima è l’unica non imprescindibile. Stiamo evidentemente parlando degli aspetti formali di una composizione, non dei sui elementi contenutistici, ma è bene chiarire che, proprio nell’ambito di una visione “tradizionale” della composizione poetica, ha senso scrivere in metrica senza rima (a patto di rispettare comunque l’andamento ritmico), mentre non ha alcun senso comporre versi in rima che non rispettino né metrica né prosodia. Ricorrendo ad una similitudine potremmo affermare che scrivere in metrica (e con una corretta accentazione) ma senza rima è come andare in giro con le scarpe ma senza calze, mentre comporre versi in rima senza riguardo alla metrica ed all’accentazione è come deambulare lungo la pubblica via con le calze ma senza scarpe...

 

 

1.     Le sillabe

 

A. Il computo delle sillabe nel verso: le figure metriche

 

Se possiamo dare per nota l’operazione di scomposizione in sillabe riferita alle parole considerate singolarmente, non altrettanto crediamo si possa fare in riferimento a quella successione di parole che chiamiamo “verso”.

Se p.es. contassimo le sillabe che compongono le singole parole del verso

e figgiano e pareano un corteo nero             (Carducci)

troveremmo che sono ben 16. Eppure si tratta di un endecasillabo, vale a dire di un verso formato da 11 sillabe. Il numero di sillabe che compongono un verso, infatti, non è per nulla dato (o almeno: non necessariamente) dalla somma algebrica delle sillabe delle singole parole. Ciò in virtù di una serie di condizioni, rispetto alla quali il poeta può esercitare qualche libertà (ma sempre entro i vincoli che gli sono posti dall’andamento degli accenti: vedi).

 

Ø      SINALEFE (o elisione metrica): si ha quando due vocali vicine, appartenenti a due parole diverse, formano una sola sillaba[2].

Esempio:             un’ | om | bra | lun | go | que | sta in | si | no al | men | to                (Dante)

La sinalefe può avvenire anche se tra le due vocali è interposta una virgola, per quanto l’inserimento di un segno di interpunzione indichi più tipicamente la presenza di una dialefe (vedi)[3]:

Esempio:             tu, o | ma | gna | ni | mo Al | fon | so, il | qual | ri | co | gli               (Dante)

 

Ø      DIALEFE (o iato): si ha quando due vocali vicine, appartenenti a due parole diverse, non formano una sola sillaba. Ciò avviene di solito se l’accento tonico cade su una delle vocali contigue, o su ambedue.

Esempio:             venendo qui | è | affannata tanto                  (Dante)

 

Ø      SINERESI: si ha quando due vocali vicine che appartengono alla stessa parola, nella quale formano iato, si fondono in un’unica sillaba.

Esempio:             se i | piè | si | stan | no, |non | stea | tuo | ser | mo | ne          (Dante)

La sineresi non avviene in fine verso se la prima delle due vocali è accentata:

Esempio:                         co | sì | can | tan | do | co | min | cia | ro; e | pò | i                (Dante)

In attesa di approfondimenti specifici relativi alle parlate novaresi, va tenuto conto che in italiano la sineresi non può avvenire tra “a”, “e”, “o” ed una vocale accentata:

Esempio:             Ga | le |òt | to | fu il | li | bro e | chi | lo | scris \ se                (Dante)

 

Ø      DIERESI: si ha quando due vocali vicine che appartengono alla stessa parola, nella quale formano dittongo, vengono pronunciate in modo da formare due sillabe distinte.

Esempio:             venir dando all’accidïa di morso                   (Dante)

Qui la divisione in sillabe é:                  ve | nir | dan | do | al | l’ac | ci | di | a | di | mor | so

In italiano la dieresi non si può mai fare:

1.      nelle parole in cui la “i” serve solo ad indicare la pronuncia palatale (ossia “dolce”) della ‘c’, della ‘g’ e della ‘gl’.

Esempi:               fa | cia             sma | già         fa | mi | glia

e mai:                  fa | ci | a          sma | gi | a      fa | mi | gli | a

2.      nelle parole in cui la ‘i ha origine da una ‘l’ latina.

Esempio:             fiur      e mai:              fi | ur

3.      nelle parole in cui il dittongo costituisce lo sviluppo di una ‘e o di una ‘o’ latina.

Esempio (per l’italiano)  :           pie | de                        die | ci             fuo | co

e mai:                                          pi | e | de         di | e | ci          fu | o | co

Dei tre casi, almeno il primo si applica certamente anche alle parlate locali.

Il segno ortografico con cui si evidenzia il fenomeno (i “due puntini” sopra la “i”, nell’esempio) è detto a sua volta “dieresi” e si pone sulla prima delle due vocali coinvolte. Per quanto graficamente del tutto analogo, quindi, questo segno non va confuso con le umlaut che caratterizzano la grafia locale.

L’analogia grafica, tuttavia, impone che la dieresi venga utilizzata al più nei soli casi in cui andrebbe collocata su vocali ove non può essere posta la umlaut: quindi, nel caso del Novarese:

ü      mai sulla “ö” e sulla “ü” se si scrive in grafia locale,

ü      mai sulla “ë” se si scrive in normalizzata.

Così, se per esempio in italiano non crea possibilità di confusione

                        e perpetüe nozze fa nel cielo

non altrettanto succederebbe nel caso della grafia locale.

Considerando poi che molte grafie “locali” prevedono umlaut anche sulle altre vocali (ed in particolare sulla “a”), ci sentiamo di consigliare la massima parsimonia nel ricorso a questo segno come dieresi. D’altro canto il ricorrervi non è obbligatorio neppure nella lingua nazionale, ove i problemi sollevati non esistono (a meno di inserire anche termini non italiani, ovviamente).

 

Nella tabella che segue riassumiamo posizione e ruolo delle figure metriche presentate:

 

Le vocali

formano

1 sola sillaba

2 sillabe

sono

nella stessa parola

sineresi

dieresi

in 2 parole diverse

sinalefe

dialefe

 

Segnaliamo da ultimo che non ci pare applicabile al caso delle parlate locali la possibilità, presente nei poeti antichi della lingua nazionale, di considerare i gruppi ‘aio’, ‘aia’, ‘oia, ‘oio’ come una sillaba sola.

Esempio:                                                ma prima che gennaio tutto si sverni                        (Dante)

che viene suddiviso:                   ma | pri | ma | che | gen | naio | tut | to | si | sver | ni

(come se fosse:                           ma prima che genna’ tutto si sverni).


 
B. Le “licenze poetiche”

 

“Vengono così definiti quegli accorgimenti grafici che modificano l’ampiezza di una parola, accorciandola o allungandola o spostandone l’accento tonico, e ai quali si ricorre per esigenze stilistiche e metriche”[4]. Le licenze poetiche sono utilizzate nella poesia in Lingua Italiana, ma tanto il Milanese quanto il Piemontese vi oppongono un netto rifiuto:

q       “In milanese, salvo casi rarissimi, non esistono vere e proprie licenze poetiche perché la maggior parte di queste parole, per licenza modificate, rientrano nel linguaggio comune, nel parlar quotidiano”[5]. E più avanti, dopo aver dato una rassegna di licenze poetiche: “In italiano vi sono altre due licenze poetiche che riguardano lo spostamento dell’accento tonico verso l’inizio o la fine di una parola, e cioè la sistole e la diastole che la metrica milanese non prende in considerazione”[6].

q       “A smija inùtil arcordé che, an piemontèis, a ven-o nen dovrà j’àute license poétiche come l’aféresi, l’epèntesi, la sìncope, la epìtesi, l’apòcope, la sìstole, la diàstole, se nen quand as trata ’d paròle consacrà da l’uso popolar”[7]. E ancora: “Se le license poétiche a peulo dé ‘d coloridure scrivend an italian, a son-o quasi sempre come ’d forsature an piemontèis e ant le lenghe naturaj, che as carateriso për la semplicità e la naturalëssa”[8].

Riteniamo che questa posizione così restrittiva sia da mettere in relazione al fatto che, stante la frequentissima caduta di vocali o sillabe finali, le parole che compongono le nostre varianti sono mediamente più brevi rispetto alle italiane. E poiché questa caratteristica è, nelle varianti novaresi, ancor più accentuata che nelle milanesi, ne deduciamo che, in particolare, il precetto di non ricorrere a sistole e diastole vada a maggior ragione rispettato.

 

Nel quadro generale di (tendenziale) rifiuto delle licenze poetiche sembra fare netta eccezione, per il piemontese (e per questo Brero scrive “j’àute license poétiche”) come per il novarese, la

 

Ø      Pròstesi. (o protesi) Consiste nell’aggiunta di una sillaba all’inizio di una parola. Ma se in italiano ciò si ha per scelta (p.es. in istrada invece di in strada, locuzione perfettamente ammessa ed anzi di ben maggiore uso corrente), non così in Piemontese ed in gran parte delle varianti novaresi, dove si registra, già a livello della parlata corrente, l’inserimento delle ben note “ë” (per il Piemontese) ed “a” (in zona novarese) dette – appunto – prostetiche. Dunque, per quanto “stelle” si dica a Novara “stèli”, l’espressione “cinch a-stèli” non costituisce esempio di prostesi.

 

Estremamente rara, tanto in Milanese quanto in Piemontese[9], è infine la

 

Ø      Tmesi. Consiste nello spezzare una parola mettendone la seconda parte nel verso successivo[10]. Si usa per necessità di rima o di metrica, di solito (ma non necessariamente) con parole composte. Così la commenta Beretta: “E’ figura d’impiego rarissimo, adatta solo per effetti particolari, e, se male impiegata, può nuocere al decoro della strofa”[11]. E Gabiazzi: “il suo valore stilistico consiste nell’unire i due versi ancor più strettamente dell’enjiambement”[12] (vedi). Ne citiamo tre esempi, il primo in Piemontese, gli altri in Milanese:

                                                              i.      Sufrìa andrinta al cheur tuta la lonta-

-nansa che da col dì l’avìa crasalo                           (Brero?)

                                                            ii.      Sigura, Mi, già, voeuri bat-

tegh i man al scior Podestà                                      (Rotondi)

                                                          iii.      Paradis, milanoeuvcent-

trenta                                                                        (Tessa)

 

C. Classificazione dei versi in base al numero di sillabe

 

Possiamo ora dare una classificazione dei versi in base al numero di sillabe di cui sono composti.

 

Classificazione dei versi in base al numero di sillabe

Numero di sillabe

Nome del verso

2

binario[13]

3

ternario o trisillabo[14]

4

quaternario o tetrasillabo

5

quinario

6

senario

7

settenario

8

ottonario

9

novenario

10

decasillabo

11

endecasillabo

10 (5x2)

doppio quinario

12 (6x2)

dodecasillabo (o doppio senario)

14 (7x2)

doppio settenario (o verso martelliano)[15]

16 (8x2)

doppio ottonario

 

Nota bene. Quando si dice che un certo verso (p.es. l’endecasillabo) è formato da un certo numero di sillabe (11, nel nostro esempio), si fa riferimento alla situazione in cui l’ultima parola che compone il verso[16] è piana, ovvero accentata sulla penultima sillaba. Invece

ü      se l’ultima parola è tronca (accento sull’ultima sillaba), il verso avrà complessivamente una sillaba in meno (quindi, nel caso dell’endecasillabo: 10 sillabe);

ü      se invece l’ultima parola è sdrucciola (accento sulla terzultima sillaba), il verso avrà complessivamente una sillaba in più (quindi, nel caso dell’endecasillabo: 12 sillabe).

Così i seguenti tre versi sono tutti settenari, pur essendo composti rispettivamente da 8, 7 e 6 sillabe:

 

Qual masso che dal vertice....

di rumorosa frana....

batte sul fondo e sta               (Manzoni)

 

Da questo punto di vista si parla rispettivamente di versi sdruccioli, piani e tronchi (per cui p.es. l’ultimo versi qui proposto è un settenario tronco).

 

 

2.     L’accentazione (prosodia)

 

A. Posizione degli accenti nei versi

 

Oltre che dal numero di sillabe che lo compongono, il verso è caratterizzato da un andamento ritmico, che è dato prima di tutto dal modo in cui si alternano le sillabe atone e quelle accentate, vale a dire dalla posizione in cui si collocano, all’interno del verso, gli accenti principali. Così, se consideriamo il verso «L’Élena la suna al citòfono» potremmo sì, limitandoci al computo delle sillabe, dire di essere di fronte ad un novenario[17], ma ci rendiamo subito conto, “a orecchio”, che qualcosa non quadra, che quel verso “non suona bene”.

Ogni tipo di verso prevede infatti uno o più schemi fissi di accentazione, che conferiscono un ritmo al verso stesso.

Generalmente ciascun accento ritmico coincide con l’accento tonico di una delle parole che compongono il verso. Abbiamo visto che questa coincidenza non costituisce, per la poesia in lingua italiana, una norma inderogabile. Tuttavia, alla luce di quanto affermato circa il concorde rifiuto, tanto da parte del Piemontese quanto da parte del Milanese, della sistole e della diastole, crediamo sia del tutto preferibile, anche nello scrivere nelle varianti locali novaresi, fare della coincidenza tra accenti ritmici (del verso) ed accenti tonici (delle parole che lo compongono) una norma da seguire in modo sistematico.

Dal punto di vista della prosodia è bene distinguere i versi parisillabi (quaternario, senario, ecc.) dagli imparisillabi (ternario, quinario, ecc.):

ü      i versi parisillabi hanno infatti ritmo almeno tendenzialmente fisso: si tende cioè ad avere un unico ordine di accenti, un unico “schema”: p.es. in italiano il senario prevede che gli accenti siano sempre sulla 2^ e sulla 5^ sillaba, e non sono possibili altri andamenti; la tabella riassuntiva riportata alla pagina seguente pare tuttavia suggerire che questa caratteristica sia, nel caso delle parlate locali, più sfumata.

ü      i versi imparisillabi, invece, permettono due o più ordini di accenti (fa eccezione il ternario, che prevede sempre l’accento sulla 2^ sillaba).

La fissità della posizione degli accenti conferisce ai versi parisillabi un andamento più ritmato e marziale[18], ed è questa una caratteristica che un buon Autore sa sfruttare consciamente ai propri fini. Ciò vale pienamente anche con riguardo alle parlate locali.

Nella tabella che segue abbiamo riassunto le alternative di accentazione possibili per ciascun verso, distinguendo tra accenti principali e secondari (indicati fra parentesi). Da notare come vi sia una notevole disomogeneità nel passaggio dalla lingua nazionale alle locali. Per quanto ciò possa essere dovuto, almeno nell’individuazione degli accenti secondari, anche a diverse sensibilità degli autori consultati (sintomatiche in proposito le discrepanze tra Beretta e Gabiazzi relativamente al Milanese), in alcuni casi sembra emergere, specie per il Piemontese, un andamento più frammentato, cui forse non è estranea la minor lunghezza media delle parole (in tabella si vede che il Piemontese rifiuta gli schemi con due soli accenti tanto per il settenario quanto per il novenario e l’endecasillabo).


 

 

Accenti principali e (secondari)

Verso

Accenti

Ita

Mil

Piem

Binario

1^

 

 

(x)

Ternario

2^

x

x y

(x)

Quaternario

3^

 

y

((x))

 

(1^), 3^

x

 

 

 

1^, (3^)

 

x

 

 

1^, 3^

 

y

 

 

1^, (2^), 3^

 

y

 

Quinario

4^

 

 

x

 

(1^), 4^

x

 

(x)

 

(2^), 4^

x

 

 

 

1^, 4^

 

x y

 

 

2^, 4^

 

x y

 

Senario

1^, 5^

 

(x)

((x))

 

2^, 5^

x

x y

x

 

3^, 5^

 

(x)

 

 

1^, (3^), 5^

 

y

 

Settenario

1^, 6^

x

x y

 

 

2^, 6^

x

x y

 

 

3^, 6^

x

x y

 

 

4^, 6^

x

y

 

 

1^, 4^, 6^

 

y

(x)

 

2^, 4^, 6^

 

 

x

 

3^, (4^), 6^

 

 

((x))

ottonario

3^, 7^

x

 

x

 

4^, 7^

 

 

(x)

 

(1^), 3^, (5^), 7^

 

x([19])y

 

 

1^, 4^, 7^

 

y

 

 

(2^), 4^, 7^

 

y

 

 

(?), 5^, 7^

 

(y)

 

novenario

4^, 8^

 

x y

 

 

2^, 5^, 8^

x

y

(x)

 

3^, 5^, 8^

 

y

((x))

 

1^, 3^, 5^, 8^

(x)

 

 

 

1^, 4^, 8^

(x)

 

 

 

1^, 5^, 8^

(x)

 

 

decasillabo

3^, 6^, 9^  ([20])

x

x ([21])

x

 

(1^), 3^, 6^, 9^

 

(y)

 

endecasillabo

6^, 10^

x

x y

 

 

1^, 6^, 10^

 

 

(x)

 

2^, 6^, 10^

 

 

x

 

3^, 6^, 10^

 

x

(x)

 

4^, 6^, 10^

 

x

 

 

4^, 7^, 10^

x

x y

x

 

4^, 8^, 10^

x

x y

x

 

4^, 9^, 10^

(x)

 

 

 

Legenda

ü      Le parentesi nella colonna degli accenti indicano gli accenti secondari

ü      Le parentesi nelle colonne intestate alle parlate indicano invece un utilizzo poco frequente (parentesi singola) o addirittura molto raro (parentesi raddoppiata) dello schema.

ü      Nella colonna del Milanese, x = Beretta, y = Gabiazzi.

B. Altri elementi rilevanti per il ritmo

 

Alla creazione del ritmo non concorrono solo gli accenti ritmici, con le loro posizioni varie o costanti, ma anche le pause. Da questo punto di vista, oltre alla punteggiatura, la poesia dispone di strumenti specifici, fra i quali:

 

Ø      Enjambement. Si ha quando il senso sintattico di un verso non viene completato all’interno di un singolo verso ma passa da un verso all’altro, vale a dire quando “un concetto viene espresso per la prima parte al termine di un verso e, per la seconda parte, all’inizio del verso successivo”[22]. In questo senso, l’enjambement opera in modo analogo alla tmesi, anche se il legame che si crea in quel caso tra i versi è ancora più forte. L’enjambement permette di “enfatizzare entrambe le sue componenti”[23], mentre dal punto di vista ritmico vi si può ricorrere “quando si vuole ottenete concitazione”[24]: l’enjambement ha infatti l’effetto di annullare la “fisiologica” pausa che, in sua assenza, intercorre tra un verso e l’altro, e per questo può essere utile anche per spezzare una eventuale impressione di monotonia derivante dalla rima (specie nel caso di rime baciate in versi parisillabi). Un esempio convincente ci è offerto da Gabiazzi[25], che propone dapprima (a) una quartina di ottonari in rima baciata (AABB, quindi), poi, attraverso modifiche apparentemente marginali, introduce due enjambement proprio in corrispondenza delle due rime baciate (b), mostrando nello schema di lettura (c) come “In questo caso la lettura o la dizione fluiranno senza l’inciampo di pause eccessive e l’indiscreto scampanio della rima verrà assorbito dall’enjambement”[26]:

(a)       Oh che bell, a la mattina,                              (b)       Oh che bell, a la mattina

vess in lett quand la Giannina                                  prest, sta in lett quand la Giannina

            la te porta coi sciavatt                                                          la te porta coi sciavatt

el giornal e ’l caffelatt.                                              ross, giornal e caffelatt.        

 

(c)        Oh che bell, a la mattina prest  /  sta in lett quand la Giannina

            la te porta coi sciavatt ross  /  giornal e caffelatt.[27]

 

Ø      Cesura. E’ una pausa ideale all’interno del verso, che viene così diviso in due parti, ciascuna delle quali è detta emistichio. Nel caso di versi parisillabi la cesura divide di solito il verso in due parti uguali, mentre nel caso degli imparisillabi la cesura è mobile, il che contribuisce ad incrementare la varietà di questo tipo di versi. Brero ci propone un esempio per i versi parisillabi (a) ed uno per gli imparisillabi (b)[28]. Si noti come nel caso (a) la cesura cada sempre in modo tale da lasciare prima di sé un quaternario (piano o tronco a seconda dei casi), mentre nel caso (b) questa omogeneità non si verifica:

(a)       Chi l’ha dit  /  che costa tèra             (b)       O Piemont,  /  o pais dij montagnar,

l’é n’immensa  /  gabia ’d mat                       pais d’òmini dur  /  e tut d’un tòch,

            a l’ha dit  /  na còsa vera                               ma àut, ma frem, ma fòrt,  /  coma ij tò ròch,

come doi  /  e doi fan quat.                                        ma militar

La fissità della cesura risulta ancora meglio nella quartina di Tessa proposta come esempio da Gabiazzi[29], dove, come si può notare, ciascun ottonario risulta spezzato esattamente in due quaternari:

 

                        E lì, saldo!  /  El s’è inciodaa,

                        e in del mezz  /  lì della strada

                        slarga i gamb!  /  el gh’à mollaa

                        on slavesg  /  d’ona pissada!

La cesura è molto importante nell’endecasillabo, dove può cadere

ü      dopo la parola su cui cade l’accento principale della 4^ sillaba (quindi: dopo la 4^, 5^ o 6^ sillaba a seconda che la parola sia tronca, piana o sdrucciola): si parla allora di endecasillabo “a minore”;

ü      dopo la parola su cui cade l’accento principale della 6^ sillaba (quindi: dopo la 6^, 7^ o 8^ sillaba a seconda che la parola sia tronca, piana o sdrucciola): si parla allora di endecasillabo “a maiore”.

Brero afferma esplicitamente che “A va dit che la cesura a impediss nen l’eilision tra le doe paròle”[30].

Beretta[31] nota inoltre che “Si può avere anche più di una cesura per enfatizzare una forma”, e propone il seguente esempio:

                        che Milan  /  l’è on paes  /  che mett ingòssa

 

 

3.      La rima

 

A. Definizioni e classificazioni

 

Crediamo sia utile richiamare schematicamente alcuni concetti che a volte, specie nel linguaggio corrente, capita di utilizzare in modo improprio.

ü      Rima. Si intende per “rima” l’identità di due parole a cominciare dalla vocale accentata in poi: p.es. pentola / sventolavita / smarritafinì / partì. Per quanto tutti pienamente corretti, i precedenti esempi non presentano rime dello stesso pregio da un punto di vista stilistico. In particolare la terza coppia presenta una rima

q       che coinvolge una sola lettera

q       e che si basa su una desinenza relativamente comune (3^ persona singolare dell’indicativo futuro semplice dei verbi della 4^ coniugazione).

Dal punto di vista dell’eccellenza metrica, infatti, non è indifferente

q       né il fatto di ricorrere a desinenze più o meno comuni

q       né il numero di lettere coinvolte nella rima: p.es. la rima tra caràtar (carattere] e teàtar [teatro], che coinvolge 4 lettere, è più ricca di quella tra gir [giro] e tir [tiro], che ne coinvolge solo 2. In questo senso si può “arricchire” la rima cercando di far coincidere anche una (o più) lettere prima della vocale tonica: p.es. la rima tra tajent [tagliente] e present [presente], pur essendo pienamente valida, è meno ricca di quella tra tajent e rabient [adirato][32].

La rima cade di regola sull’ultima parola del verso. A seconda che le parole messe in rima siano sdrucciole, piane o tronche, si parla rispettivamente di rime sdrucciole, piane o tronche[33].

Nella Lingua Italiana[34] possono rimare tra loro

q       le “è” (aperte) con le “é” (chiuse): p.es. vérde / pèrde,

q       le “ò” (aperte) con le “ó” (chiuse): p.es. vòlve / pólve (=polvere),

q       le “s” sorde con le sonore: p.es. Pisa / divisa[35]

q       e talvolta le “z” sorde con le sonore.

Per quanto i casi precedenti possano sembrare poco soddisfacenti (specie quelli tra vocali aperte e chiuse), notiamo che i tre esempi riportati sono tutti tratti da Dante...

Da notare come, nel caso del Milanese, Beretta ammetta tra le possibili rime anche quella tra “ò” ed “ó” (“ó” che nella grafia cherubiniana – così come in quella piemontese normalizzata – indica un suono se non identico comunque assai simile alla “u” italiana”). E’ quindi ammessa, in Milanese, la rima tra fòss e tóss, “perché il milanese vi sente due /o/, delle quali l’una aperta e l’altra chiusa”. Non è invece ammessa la rima tra vocale breve e vocale lunga (p.es. andà [andare] con andaa [andato])[36]. Molto più restrittiva la posizione di Gabiazzi, che cita tra gli esempi non ammessi per il Milanese la rima di clèr con pensér, e addirittura quelle di sass con giazz e di uss con barlafus[37].

ü      Rima equivoca. (Piem.: rima a dobi sens) Si ha quando rimano fra loro parole di significato diverso ma di forma uguale: p.es. porta (voce del verbo “portare”) e porta (sostantivo: uscio).

ü      Rima ripetuta. Si ha invece quando la stessa parola è riproposta in rima nello stesso significato (p.es. il termine porta utilizzato sempre nell’accezione di “uscio”).

ü      rimalmezzo (o rima al mezzo). Rima collocata all’interno del verso. Le due parole che fanno rima si trovano entrambe all’interno del verso di cui fanno parte. In italiano è una situazione rara; è invece frequente (così come la rima interna) in Tessa (Milano).

Esempio:   de cioccatee che vosa / de baracchee che canta       (Tessa)

ü      Rima interna. La parola con cui finisce un verso rima con una parola interna al verso successivo.

Esempio:   strepenenta... (ona nivola quell dì)... / e la se troeuva lì... sballada... sola!       (Tessa)

ü      Rima composta. (o spezzata; Piem.: rima rota) Situazione in cui si fa rimare una singola parola con un gruppo di parole che, nella pronuncia, hanno un suono simile. Nella lingua italiana è utilizzata quasi solo dalla poesia antica.

Esempio: cercando lui tra questa gente sconcia / ... / e men d’un mezzo di traverso non c’ha (Dante)

Almeno in Piemontese invece se ne hanno anche esempi di autori contemporanei:

Es.: L’ombra dla sèira cha am portava mama / ... / am dis ch’l’é ancora lì... Oh, ’l cel lo sà, ma... (Brero)

ü      Assonanza (o assonanza tonica, o rima vocalica). A partire dalla vocale tonica, le due parole presentano le stesse vocali ma consonanti diverse: p.es. pepe / sete.

ü      Consonanza (o assonanza atona o rima consonantica). A partire dalla vocale tonica, le due parole presentano le stesse consonanti ma vocali diverse: p.es. cespo / vispo.

Ä      Assonanza e consonanza sono ammesse “nella poesia popolare o di tipo popolaresco”[38], tuttavia è opinione diffusa che siano da evitare o comunque da utilizzare con cautela e solo a fini particolari[39].

 

B. Disposizioni di rima

 

Nelle descrizioni delle rime che caratterizzano un componimento poetico, ciascun verso è indicato con una lettera maiuscola, in modo che a lettere uguali corrispondano rime uguali. P.es. “AABB” indica che si è di fronte a 4 versi, dei quali il primo rima con il secondo ed il terzo con il quarto, mentre ABBA indica che il primo verso fa rima con il quarto ed il secondo con il terzo.

La presenza, accanto alle lettere maiuscole, di lettere minuscole, indica che il verso corrispondente è formato da un minor numero di sillabe: p.es. AbaB indicherebbe che il primo verso fa rima con il terzo ed il secondo con il quarto, ed anche che il secondo ed il terzo sono più brevi degli altri due[40].

ü      Rima baciata: il 1° verso rima con il 2°, il 3° con il 4°, ecc.: AABB[41]. Nel caso di terzine lo schema diventa ABA CBC.

ü      Rima continuata: è una rima baciata che si estende però a più di due versi, e spesso a tutti i versi di una stessa strofa (p.es., se il componimento è in terzine, lo schema sarà AAA, BBB, ecc., mentre se è in quartine avremo AAAA, BBBB, ecc.).

ü      Rima alternata. il 1° verso rima con il 3°, il 2° con il 4°, il 5° con il 7°, ecc. (ABAB).

ü      Rima incrociata. il 1° verso rima con il 4°, il 2° con il 3°, il 5° con l’8°, ecc. (ABBA)[42].

ü      Rima incatenata. Lo schema è ABA BCB CDC ecc. Ne costituisce celeberrimo esempio la Divina Commedia.

ü      Rima ripetuta (o costante). Quando una rima ritorna nelle diverse strofe sempre nella stessa posizione. P.es. nelle quartine a schema AAAC BBBC, “C” costituisce un esempio di rima ripetuta, mentre i gruppi AAA e BBB sono rime continuate.

ü      Rima replicata. Quando la ripetizione riguarda un sistema di 3 o più versi: ABC ABC[43].

ü      Rima invertita. Si trova nelle terzine e ha schema ABC CBA.

 

N° versi

Nome

Ita

MIl

Piem

1

monostico

--

--

--

2

distico

AA BB

AA BB aa ab

AA

3

terzina

ABA BCB (per 11) e altri

11, 9, 7

ABC; ABA ABA; ABA BCB
...A; aBB bCC (caud.)

ABA BCB o altre
(pes. AAB CCB)

4

quartina

ABAB, ABBA

11, 11+7, 10, 9, 8,

7, 7x2, 7+5, 5, ecc.

ABAB, ABBA

(AbAb, AbbA)

ABAB, ABBA

5

quintina

--

ABBAB

AABBA CCDDA

6

sestina

ABABCC, AABCCB

spesso 11

ABABCC (di solito 11)
ABaBcC

ABABCC
(esempi: 6, 8)

7

settimina

--

abbacca

ABBCDDC

8

ottava

ABABABCC

11, ma anche 7 e 5x2

ABABABCC

(ABbA-cDdC)

ABABCCDD
ABABCDCD

ABBACDDC

ABBCDEEC
8, ma anche 7, 11, 6

9

nona rima

ABABABCCB

11

--

 

11

(rima d’óndes)

--

--

5x2
ABCBDEFEGHH

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il metro

 

Come i versi si raggruppano in strofe, così le strofe si raggruppano in “metri” poetici. Anch’essi sono svariatissimi. Ne diamo solo qualche cenno, in relazione alla fortuna che hanno incontrato nelle letterature Piemontese e Milanese.

 

ü      Sonetto E’ formato da 4 strofe, due quartine seguite da due terzine. Le quartine di solito presentano lo schema ABAB ABAB oppure ABBA ABBA, mentre per le terzine esistono molte alternative (per il Milanese la più usata è forse CDC-DCD). E’ composto da endecasillabi. Conosce larghissima diffusione tanto in Piemontese quanto in Milanese.

ü      Sonetto minore Analogo al precedente, ma i versi che lo compongono non sono endecasillabi (p.es. in Milanese si hanno esempi di utilizzo di settenari e di ottonari).

ü      Sonetto caudato Molto importante nella tradizione milanese (famoso il “Sonett col covon” del Porta), si ottiene dal sonetto aggiungendovi una serie illimitata di ulteriori terzine, formate però da un settenario e due endecasillabi, con schema ...A aBB bCC...

ü      Stornello Per quanto senz’altro tradizionalmente più legato alle parlate di altre aree geografiche, lo troviamo citato anche a Milano[44]. E’ composto da un quinario iniziale (che nomina sempre un fiore) cui seguono due endecasillabi. Il quinario rima con il secondo endecasillabo, mentre forma con il primo una particolare assonanza: ha in comune tutte le (eventuali) lettere che si trovano dopo la vocale tonica (p.es. menta/canta).

ü      Poemetti La Letteratura Milanese ne presenta di vari tipi, ciascuno legato ad un argomento prevalente.

q       in ottave, ritenuti adatti a lirica ed epica,

q       in sestine, ritenuti adatti al racconto rapsodico,

q       in quartine, ritenuti adatti alle fiabe,

q       in terzine, ritenuti adatti alla critica[45].

ü      «Canson» Importanti nella Letteratura Piemontese, sono costituite da una quantità di strofe che si ripetono con la stessa disposizione di versi e di rime. Rispetto alla “canzone petrarchesca”, manca di solito in Piemontese il “commiato” (congé, in Piemontese), vale a dire la strofa più breve che chiude il componimento. Si ha invece spesso un ritornello di uno, due o più versi che ritorna alla fine di ogni strofa.

ü      «Tòni» Formalmente è simile alla canzone: è formato da una successione di ottave, ciascuna composta da due quartine, la prima delle quali è di regola a rima alternata (la seconda presenta invece una maggiore varietà di rima e di verso). Si caratterizza per l’argomento, che, inizialmente legato alla poesia comica popolare, si connota man mano come burlesco, satirico e polemico.

ü      «Corenta» E’ una ballata in cui la strofa è formata da un’ottava (o da due quartine) di ottonari, mentre il ritornello da un’ottava (o due quartine) in cui gli ottonari si armonizzano con doppi quinari piani o tronchi (es.: Maria Catlin-a).

 

 

   
Bibliografia

ü       B. Migliorini, F. Chiappelli: Elementi di stilistica e di versificazione italiana per le scuole medie superiori - Felice Le Monnier, 2^ edizione, Firenze, 1948.

ü       Claudio Beretta: Grammatica del Dialetto Milanese / Grammatica del Milanese contemporaneo - Libreria Meravigli Editrice, Vimercate (MI), 1998

ü       Dino Gabiazzi, “Rima e metrica nella poesia milanse”, in: Franco Nicoli: Grammatica Milanese - Bramante Editrice, Busto Arsizio (VA), 1983

ü       Camillo Brero: Gramàtica Piemontèisa. Métrica e Prosodìa dla Poesìa Piemontèisa - Mariogros Editore, 5^ edizione, Torino, 1987

ü       Domenico Caresio: Grande Rimario Piemontese / Con esempi poetici e una grammatica piemontese pratica (a cura di Dario Pasero) - GS Editrice di Grafica Santhiatese, Santhià (VC), 2000

ü       Lo Zingarelli 95 - Vocabolario della Lingua Italiana di Nicola Zingarelli - Dodicesima Edizione - A cura di Miro Dogliotti e Luigi Rosiello - Ed. Zanichelli, 1995

 
 

 



[1] Brero, pagg. 169-170.

[2] Volendo essere precisi, si dovrebbe distinguere:

ü       si ha sinalefe quando tutte le vocali coinvolte continuano ad essere pronunciate compiutamente (sia pure “raggruppate” in modo da costituire una sola sillaba);

ü       si ha invece elisione in caso di lenizione nella pronuncia della vocale che porta minor carico di “informazione” (la suddetta vocale viene cioè pronunciata in modo attenuato).

[3] Beretta (pagg. 182-183) segnala come in Milanese si possa avere sinalefe anche quando “una nasale in fine di parola, seguita da vocale iniziale, anziché appoggiarsi a tale vocale seguente (e diventare dentale) si lenisce e viene metricamente elisa (analogamente alla metrica classica latina e greca)”. Come esempio cita un verso del Porta (El Lavapiatt, I.11): seb | ben él | pas | sàss | de | là | tutt | quánt | el | dì. In base alle indicazioni, il verso andrebbe letto: seb | be’ él | pas | sàss | de | là | tutt | quánt | el | dì. La possibilità di esportare questa fattispecie alle nostre parlate ci lascia alquanto perplessi, non trovando adeguati riscontri nella pronuncia corrente. An passant, ci permettiamo anche di notare che la separazione di passass (“passasse”) in pas | sass suscita qualche dubbio: se la doppia “s” intervocalica fosse – come accade per le varianti novaresi e per il Piemontese – una mera convenzione grafica, allora “ss” costituirebbe digramma (né più né meno dei casi italiani “gn” e “gl”), e la sua separazione non risulterebbe giustificata. Si deve pensare che in Milanese, oltre alla valenza di cui sopra, il segno “ss” si carichi anche di una indicazione circa la “durata” della consonante: saremmo cioè di fronte ad una consonante lunga (approssimativamente, e con riferimento all’italiano: una via di mezzo tra semplice e doppia).

[4] Gabiazzi, pag. 389.

[5] Gabiazzi, pag. 389.

[6] Gabiazzi, pag. 392. Nella poesia italiana, invece, come ricorda il Chiappellli-Migliorini, “Talvolta, in determinati vocaboli per necessità ritmica, l’accento tonico può essere spostato. P.es. Dopo non molto, la bara funèbre / giunse... (Ariosto)” (pag. 191; la sottolineatura è nostra). Quello proposto è, per la precisione, un caso di diastole, vale a dire di “spostamento dell’accento per ragioni ritmiche verso la fine della parola” (Zingarelli 95). Esiste anche, simmetricamente, l’artificio contrario, detto sistole (“spostamento dell’accento per ragioni ritmiche verso l’inizio della parola”: p.es. dai quai per tanto spazio oggi mi dívido [Sannazzaro]; Zingarelli 95).

[7] Brero, pag. 158.

[8] Brero, pag. 159.

[9] E Gabiazzi aggiunge che “se ne è fatto un uso discretissimo anche da parte dei poeti in lingua” (pag. 391).

[10] La tmesi non è da confondere con la sinafìa, che consiste in un “Legame metrico tra due versi, per il quale la sillaba finale del primo [...] viene contata nella misura metrica del secondo: E’ l’alba: si chiudono i peta-li / un poco gualciti; si cova... (Pascoli).” (Zingarelli 95). Paiono quindi errate tanto la posizione di Brero, che (pag. 159) attribuisce alla sinafia le caratteristiche della tmesi (che invece non menziona), quanto l’equivalenza dei due termini sostenuta da Gabiazzi (pag. 391).

[11] Beretta, pag. 184.

[12] Gabiazzi, pagg. 391-392.

[13] Di versi “binari” si parla solo in Piemontese, e in modo forse non omogeneo:

ü       da un lato, Caresio li cita regolarmente nella propria tabella sinottica relativa all’accentazione (pag. 13), indicandoli come “pòch dovrà an Piemontèis” (ma la stessa avvertenza si ripete per il ternario, ed in corrispondenza al quaternario troviamo addirittura “Ràir an Piemontèis”, che parrebbe commento ancor più netto;

ü       dall’altro tuttavia Brero scrive chiaramente (pag. 159): “disoma sùbit che an Piemontèis as treuvo nen d’unità rìtmiche formà mach da ’d vers«bissìlabo». As peulo trové mach coma «emistichi» e ant la composission a vers lìber” [“emistichio”: mezzo verso; ciascuna delle due parti in cui la cesura (vedi) divide un verso].

Le due posizioni non paiono in sintonia, perché

ü       se il binario compare in emistichi, non ha senso trattarlo come voce autonoma in una tabella sinottica,

ü       mentre se compare solo in versi liberi non si capisce bene perché un rimario (qual è appunto l’opera di Caresio) dovrebbe occuparsene.

L’unica ipotesi in grado di non sconfessare le affermazioni di nessuno dei due autori è che Caresio prenda in considerazione il verso binario solo per esigenza di completezza espositiva.

[14] Come anticipato nella nota precedente, la discrepanza tra le fonti piemontesi notata a proposito del verso binario si ripropone pari pari per il ternario, verso che però trova certamente applicazione tanto in Italiano quanto in Milanese.

[15] Da Pier Jacopo Martelli (1665-1727), che peraltro “dichiarò di averne ripresa la struttura da Cielo d’Alcamo” (Gabiazzi, pagg. 400-401); questo tipo di verso è anche detto “alessandrino”, da Alessandro da Bernai (o di Bernay?), autore francese del sec. XII).

[16] O la parte dell’ultima parola che lo compone, nel caso di tmesi.

[17] Le sillabe sarebbero infatti 11, ma si riducono a 10 per sinalefe tra suna e al, ed essendo poi l’ultima parola sdrucciola “saremmo” di fronte (appunto) ad un novenario e non ad un decasillabo.

[18] S’intende, ovviamente, che siffatto andamento viene conferito non al singolo verso isolato, ma ad una successione di versi analoghi (p.es. ad una serie di ottonari).

[19] Malgrado quanto affermato circa gli accenti del quaternario, Beretta dice che “L’ottonario è, in pratica, un doppio quaternario” (pag. 188). Sull’ottonario, stessa annotazione anche in Gabiazzi (pag. 397).

[20] “Di solito”, dice il Migliorini-Chiappelli: la specificazione lascia pensare che possano esserci altre combinazioni.

[21] Secondo Beretta “Per rompere eventuale monotonia tollera mobilità interna” (pag. 188).

[22] Beretta, pag. 184.

[23] Beretta, pag. 184.

[24] Beretta, pag. 184.

[25] Gabiazzi, pagg. 392-393

[26] Gabiazzi, pagg. 393.

[27] La grafia di Gabiazzi non è del tutto coincidente con quella di Beretta.

[28] Brero, pagg. 160-161. La prima quartina è tratta da “Ël progress” di Norberto Rosa, la seconda da “La vos d’Italia” di Cesare Balbo.

[29] Gabiazzi, pag. 393. La quartina è tratta da “El caval de bara”.

[30] Brero, pag. 167.

[31] Beretta, pag. 182.

[32] La presenza in un caso di una ‘j’ e nell’altro di una ‘i’ è infatti solo una convenzione grafica: si tratta sempre di ‘i’ semiconsonantiche.

Alla “ricchezza” della rima è particolarmente sensibile Gabiazzi, che giunge a leggere come elemento di ricchezza nella rima tra avar [avaro] ed amar [amaro] il fatto che nelle due parole “la stessa vocale iniziale – la a – funge d’appoggio” (pag. 402).

[33] Nella poesia italiana “Talvolta, data la relativa scarsità delle rime sdrucciole, i poeti fanno rimare solo” gli altri versi (Migliorini-Chiappelli, pag. 190). Una posizione analoga è testimoniata, per il Piemontese, dalla poesia “Su la vita ‘d campagna” di E. I. Calvo, che utilizza una “rima d’óndes” (vedi) in versi quinari con schema ABCBDEFEGHH (con la sottolineatura abbiamo indicato i versi sdruccioli); come si può notare, tutti gli altri versi seguono uno schema di rima. La “libertà” che il poeta si concede è dunque sempre molto relativa e... sorvegliata. Per le nostre parlate la ancor maggiore scarsità di parole sdrucciole (rispetto all’italiano) giustificherebbe ulteriormente una simile libertà.

[34] Migliorini-Chiappelli, pag, 198.

[35] Per quanto il parlante novarese (e forse il settentrionale in genere) tenda a pronunciare sonora anche la “s” di “Pisa”, la pronuncia corretta prevede una “s” sorda.

[36] Beretta, pag. 190. Non abbiamo invece trovano alcun cenno ad eventuali possibili rime «ò/ó» (né per autorizzarle né per vietarle) per il Piemontese, che pure è potenzialmente interessato dal problema.

[37] Gabiazzi, pag. 402. Gabiazzi non dice invece nulla circa l’eventualità di una rima tra “ò” ed “ó”, per quanto la sua impostazione sembrerebbe escluderla. Condivide inoltre con Beretta, come prevedibile, il rifiuto della rima tra vocale lunga e vocale breve, e vi aggiunge anche il “no” alla rima tra consonante lunga e consonante breve (su cui è Beretta a non esprimersi).

[38] Chiappellli-Migliorini, pag. 198.

[39] Così, se Caresio è lapidario: “A l’é sempe mej che le rime a sio përfete” (pag. 12), Brero esprime invece un parere decisamente più articolato: dopo aver sottolineato che “Naturalment na rima a l’é tant pì esaltà e rica, con pì a sà anteressé ’d son (vocàlich e consonàntich) le paròle finaj dël vers: La rima tra seren e teren a l’é motobin pì rica che cola tra seren e trafen.”, scrive invece a proposito di assonanza e consonanza: “a l’é bin dì che coste fàusse rime ëd vòlte a peulo dé l’impression dë stonature (che a l’é mej evité) mentre ’d vòlte a peulo esse d’efet për buté an risalt na paròla o ’n concet.” (pag. 173).

[40] Non è infatti né raro né a maggior ragione scorretto utilizzare, in una medesima “strofa” (raggruppamento di versi) versi di lunghezza differente: p.es. endecasillabi alternati a settenari. Queste commistioni non sono mai casuali, ma tengono conto degli andamenti ritmici che caratterizzano i vari tipi di versi.

[41] Beretta distingue invece due casi, e definisce lo schema AA BB come “rima accoppiata”, riservando invece la definizione di “rima baciata” alla situazione in cui due versi accoppiati chiudono una serie alternata: p.es. gli ultimi due versi di uno schema AB AB AB CC (pag. 190).

[42] Beretta indica questa come “rima chiusa” (pag. 190).

[43] Beretta parla qui di “rima rinterzata” (pag. 190).

[44] Galbiazzi, pag. 407.

[45] Beretta, pag. 192.