Mercoledì 13 d'Agosto

(Terzo premio concorso letterario Banca Popolare di Novara)

 

L’autostrada sembrava deserta. Per adesso, per adesso e per qualche poco tempo ancora, lui sapeva che sarebbe continuata ad esserlo, poi, invariabilmente, sarebbe ricominciato il caos di tutti i giorni.

Le macchine che l’avrebbero affollata e che non avrebbero dato spazio, i camion che lo avrebbero pressato, gli altri che non l’avrebbero lasciato vivere; tutto, ma proprio tutto avrebbe contribuito nel concorrere a quella sua infelicità che si sentiva addosso.

Gli altri, poi! Gli altri; quell’entità anonima quanto sconosciuta che, componendo il resto del mondo, pareva esistere solo per rendere infelice chi, come lui, si preoccupava di occupare il minimo spazio.

Oh Dio, mica in senso figurato, dato che, lui, con i suoi centoventicinque chili di spazio n’occupava parecchio, ma in senso di spazio vitale, in senso di prevaricazioni personali, di sovrapposizioni forzate.

Lui era un tranquillo, lui non sapeva mai rispondere alle corna che, con la mano alzata, si vedeva sventolare di sotto il naso da parte di quelli che pensavano d’essere i padroni del mondo. Lui non s’arrabbiava nemmeno quando, invece di limitarsi a mandargli un silenzioso messaggio, qualcuno si sporgeva dal finestrino e voleva a tutti i costi farglielo sapere ad alta voce: «Cornuutooo!» si prendevano la premura d’informarlo; e lui niente, lui a domandarsi cosa mai avesse fatto per meritarsi tanto. Magari perché stava rispettando i limiti di velocità ed andava troppo piano… o magari perché non stava abbastanza appiccicato alla linea di destra, o magari solo perché ci fosse anche lui al mondo? Mah! Certo che quando si fermava agli stop e faceva arrabbiare quanti gli stavan dietro, non s’accorgeva mica d’aver fatto una cosa tanto sbagliata. Nemmeno qualche settimana prima se n’era accorto, quando s’era fermato al semaforo rosso ed era stato tamponato da un camioncino; nemmeno allora…ma nemmeno allora s’era accorto d’essere in torto.

«Ma cosa fa… Si ferma?» s’era sentito urlare da dietro.

«Certo che mi fermo, è rosso!!…Quando è rosso io mi fermo!» provava lui timidamente ad obbiettare scendendo dalla macchina con già in mano i documenti.

«Ma no, ma no, » continuava ad urlargli dietro quell’altro «cosa c’entra se è rosso, vadi, vadi! Non vede che sta ingombrando il traffico?» e lui, un po’ per non andare a litigare ed un po’ per non finire col fare arrabbiare qualcun altro di quanti stavan dietro e che già incominciavano con lo strombazzare, lui era risalito in macchina ed era ripartito. Anche perché, nel frattempo, il semaforo era ridiventato verde, e col verde, si sa, si deve procedere. Seicento Euro, gli era costato riparare la macchina. Seicento Euro per un’infrazione alla rovescia. Ma si poteva essere più sfigati di così?

Certo che quella non era l’unica! Era già da un po’ di tempo che tutto sembrava andargli storto. Sì, era già da un po’ di tempo, anzi da troppo, che sembrava ci fosse qualche cosa che s’era messa per traverso e che si divertiva a complicargli la vita.

Si presentava ad un qualunque sportello dietro ad una fila lunghissima, ma che per fortuna procedeva alla svelta, salvo che, quasi al suo turno, proprio quello davanti a lui tirava fuori un pacco di documenti che richiedevano almeno un’ora d’attesa prima d’essere soddisfatti. Le code ai passaggi a livello abbassati, poi, da un po’ di tempo in qua, si rappresentavano con tutte le macchine che passavano all’alzarsi delle sbarre, salvo lui, che le vedeva inesorabilmente scendere un’altra volta proprio prima del suo turno. Cose così, insomma, cose piccole a pensarci bene, ma cose che, ogni tanto, a ripensarci, facevano venir voglia di rovesciare il mondo e di spaccare tutto.

«Ma no!» si diceva da solo «È che si sta invecchiando! Si sta invecchiando e certi inconvenienti non si sopportano più come prima. E poi, oh, per rovesciare il mondo e per spaccare tutto bisognerà pure alzarsi il  mattino presto; e chissà poi che razza di un lavoro che bisognerà fare!» continuava sarcastico, mentre controllava negli specchietti la figura di un mostruoso T.I.R. che aveva preso a strombazzare. «Spostati o ti metto sotto.» gli sembrava d’individuare il motivo suonato dalle trombe stridule; e lui dove doveva andare, dove doveva spostarsi lui, se stava già al limite della sua destra?

«Eccone un altro che se n’approfitta.» si diceva mentre si concentrava nella guida, per il tempo che quella montagna mobile durava nel sorpasso. «Ve n’approfittate tutti, nèh! Oggi l’autostrada è gratis ed ecco qua, tutti a correre come matti, tutti ad approfittarsene!» terminava ricordando con un sorriso appena accennato, all’invitante cartello esposto all’entrata del casello. “Sciopero” c'era scritto sopra, bello in grande, poi, sotto e più in piccolo “Non cercare il biglietto e procedere fino a destinazione”. Leggerlo, era stato come la famosa ciliegina sulla torta che, una volta tanto, capitava proprio a lui; era l’augurio di buon giorno che s’era sentito rivolgere, anche se, quell’augurio, non era servito un gran che per sollevarlo dai pensieri dell’impiccio in cui s’era andato a cacciare.

Quella mattina era il tredici d’Agosto; Mercoledì tredici d’Agosto e, manco a dirlo, per una fortuita serie di circostanze, anche la sola settimana di ferie che s’era ripromesso, anche quella era andata a farsi benedire. La sua segretaria, la signorina Secondina, una paciosa cinquantenne che, oltre a trattarlo con fare paternalistico, non perdeva mai l’occasione di sedersi alla scrivania scomponendosi le gambe, per fargli vedere di che colore fossero le mutandine del giorno, la signorina Secondina lo aveva ben avvisato di quella consegna. Zitella ormai catalogata, ma non rassegnata, alta poco più d’un tappo e rotonda poco meno d’una palla, in ufficio non se ne perdeva una. Possedeva una notevolissima capacità organizzativa e contribuiva non poco nel rendergli la vita comoda; al punto che, quegli inviti nemmeno tanto velati, a riflettere sui colori fantasiosi della sua biancheria, anche quelli in fondo, parevano persino poca cosa se paragonati a tutto il resto del bene che ne derivava.

Una consegna da doversi fare assolutamente prima di ferragosto, s’era premurata d’avvisarlo «Guardi signor Erminio che è una cosa importante. Io vado in ferie, ma lei non se ne deve dimenticare, nèh, mi raccomando. Non facciamo che perché sono via io, lei si vada a perdere con qualche sciacquetta che le farebbe solo perdere la testa. Non si dimentichi di questa consegna, nèh! »

E lui invece se n’era dimenticato. Accidenti a lui ed alle ferie della signorina Secondina, lui se n’era dimenticato!

Avrebbe potuto ricordarsene prima e mandarci qualcun altro, come del resto aveva sempre fatto, ma invece, no, se n’era dimenticato e se la signorina Secondina non avesse telefonato, come per altro avrebbe fatto qualunque buona mamma, lui la consegna l’avrebbe di sicuro saltata.

«Pronto…Buon giorno signor Erminio, sono Secondina, come va lì da lei? Telefonavo per sentire se va tutto bene...Sì-ìì?...oh bene! E quella consegna l’ha poi fatta?...Ohh! Bene, bene… Oh, per me va benone.» continuava la telefonata nonostante la pietosa bugia «Ad ogni modo, se in ufficio dovesse mai trovarsi in qualche impiccio, mi telefoni pure, sa!… Sì sì, pensione Miramare, Riccione... Sì sì, il numero è scritto sul calendario…Oh, signor Erminio…mi sta facendo arrossire, non dica così, non faccia il malizioso…stia attento a lei, piuttosto! Sì sì, stia tranquillo che cercherò di divertirmi.» e non appena messo giù il telefono, subito l’affannosa ricerca della soluzione; ma al dodici d’Agosto, se n’accorse quasi subito, la ricerca si rendeva quanto mai improbabile.

Tra chi non c’era, tra chi era già partito e tra chi, senza tanti giri di parole, lo stava mandando impietosamente a quel paese, la soluzione non poteva essere che una sola: doveva per forza andarci lui.

Erminio Adamoli era una persona tranquilla, questo s’era già detto, ma il lato più rimarchevole del suo carattere non finiva qui, quel che più s’evidenziava in lui: era la pigrizia.

Non una pigrizia intesa come rifiuto dell’attività, ma un qualcosa di più sottile, un qualcosa di più coinvolgente, di più patologico, un qualcosa che…come dire…insomma: era solo che per lui occorreva più tempo.

Tempo per pensarci, tempo per organizzarsi, tempo addirittura per entrare nell’ordine d’idee di quel che andasse fatto; ecco… forse…forse più che un pigro: lui era un placido. D’altra parte s’era costruito apposta una vita in modo che proseguisse da sola senza troppo coinvolgerlo, senza troppo impegnarlo. Non s’era nemmeno sposato per perseguire al suo scopo: troppi pensieri, troppe preoccupazioni che, all’età di sessant’anni suonati, non gli facevano ancora rimpiangere quel suo modo d’essere che lo poneva al riparo da inutili affanni.

Aveva invece trovato quella specie d’attività di tutto riposo, che si componeva, in pratica, come un semplice giro di passacarte; e che assieme  alle carte ci passasse pure della merce e da quello ne derivasse il guadagno, quello era un fatto che, per lui, era già del tutto marginale.

Era un’attività tranquilla, insomma, tranquilla come altro non avrebbe potuto essere, dato il soggetto, ed in più, in virtù di strane leggi ed ancor più strani regolamenti, era pure un’attività che si svolgeva più o meno da sola, coperta e difesa da una specie di monopolio.

Dalle nove a mezzo-giorno e dalle tre alle sei, era quanto di massimo lui riuscisse a dare; e non valeva nemmeno il buon esempio che la signorina Secondina si sforzava di portare in ufficio, facendosi sempre trovare presente una buona mezz’ora prima di lui. Lui, l’Erminio, lui continuava imperterrito il suo orario come se niente fosse, e non si faceva nemmeno tanto scrupolo d’inframmezzarlo con qualche caffè al bar all’angolo, e lunghe chiacchierate con chiunque avesse il tempo e la voglia d’ascoltarlo.

«Pronto…No, il signor Erminio al momento non c’è, è ad una riunione nell’altro ufficio.» aveva persino preso l’abitudine di coprirlo la Secondina «No, quando sarà libero non lo so, cosa vuole, è talmente occupato!»

Niente di meglio, insomma, sennonché, anche quel meglio, una volta tanto andava pure che fosse fatto.

Ecco perché, al tredici d’Agosto, l’Erminio Adamoli, dalla periferia Ovest di Novara dove aveva sede la ditta, aveva preso il furgone sponsorizzato con il logo ed il suo nome e s’era messo in autostrada alla volta di Milano. S’era dimenticato di quell’accidenti di consegna, accidenti a lui, alle ferie della signorina Secondina, ed ai lavori che non potevano aspettare; se n’era dimenticato e adesso doveva rimediarci, proprio lui, proprio lui di persona, e …e con quel caldo, poi!

La notte prima non aveva nemmeno dormito; un po’ per il caldo che non dava tregua ed un poco per due o tre moscerini affamati che avevano preso a tormentarlo. L’insetticida era anchesì finito, perché quello… quello non aveva autorizzazione a comprarselo da solo. No, quello glielo procurava la signorina Secondina, poiché lui, quando doveva entrare in un supermercato, a suo dire, finiva sempre col perdersi tra le formule delle etichette. Lei invece, no. Lei lo trovava in uno sconosciuto negozietto specializzato nella vendita di prodotti compatibili con l’ambiente. Prodotti che non avrebbero nuociuto alla sua salute, che lei ci teneva tanto a curarlo!

«A sorvegliarlo!» reclamava benevolo l’Erminio. Ma si sa com’è, le cose costituite è sempre meglio lasciarle andare come vanno e, così, ogni tanto se la vedeva arrivare in ufficio con una borsetta da supermercato, dove ci aveva ficcato dentro quanto lei pensava che lui, da sbadato qual era, non avrebbe saputo trovare.

Sempre premurosa, la signorina Secondina, sempre tanto premurosa anche quella volta che, dentro quella borsetta, tra le altre cose, ci aveva trovato una confezione di Viagra.

«Toh! Chissà come mai è finita proprio dentro qua?» aveva finto, lei, di giustificare la presenza di quella confezione omaggio «Me l’hanno data in negozio ed io, non sapendo che farne, l’avrò messa lì dentro per sbaglio, senza pensarci.» mentiva spudoratamente; ma che ci abbia pensato, o no, o che ci abbia sperato, o cosa, a lui l’allusione non lo aveva nemmeno sfiorato e la signorina Secondina seguitasse pure con le sue illusioni da romanzo a fumetti. Che negli ultimi giorni, poi, poveretta lei, ma sarà stato per il caldo, o sarà stato per l’incipienza delle vacanze, ma se la vedeva persino arrivare in ufficio in abbigliamento da teen-agers che, solo a guardarla, ci voleva già della bella pazienza per non mettersi a ridere, nèh!

Però, accidenti a quella perenne sofferente di caldane, la sera prima d’insetticida, con Viagra o senza Viagra, non ce n’era più, e quei dannati moscerini non lo avevano lasciato dormire; e fosse stato solo per quello, ma c’era pure la preoccupazione per il giorno dopo che aveva fatto la parte sua. Doveva organizzarsi bene se voleva togliersi dai pasticci.

Doveva andare alla S.A.M.E.A., ritirare quanto già accordato per telefono e consegnarlo a destinazione. Tutto nello stesso giorno, tutto in una sola volta. Tutto in una frenesia, tutto in un raptus energetico, in un attacco di smania  lavorativa che, di solito, lui l’avrebbe impiegata durante un’intera settimana.

La S.A.M.E.A., per quelli che partivano da Novara, si trovava dall’altra parte di Milano.

«Quindi, » si diceva considerando bene i tempi di percorrenza «quindi per essere la alle otto ed essere servito per primo, dovrò partire almeno alle sette; e se devo partire alle sette, dato che dovrò pure prepararmi, mi dovrò alzare alle sei.» Questo gli procurava già la prima smorfia, ma non era ancora niente, confronto a quel che sarebbe venuto dopo.

«No, non basta!» si rassegnava a riconoscere dopo poco tempo, riprendendo la sveglia per cambiarne l’impostazione «Tra l’autostrada che mi porterà via una buona mezz’ora, tutta la tangenziale Ovest che ci vorrà un’altra mezz’ora, ed il pezzo per ritornare indietro nel quartiere industriale, il tutto fa quasi due ore, e quindi…» cominciava già a sentire una punta di disagio «…e quindi…e quindi le cinque!» Si meravigliò da solo nella messa a punto del nuovo scatto d’allarme: non era mai successo! Davvero! Sicuramente, nella sua vita, non si ricordava di aver mai dovuto alzarsi ad un’ora tanto indecente! Si rimise a letto e tornò a concentrarsi nell’impari lotta col caldo e quelle dannate  zanzare. Stava quasi per prender sonno, o almeno, così pareva a lui, quando diede un altro balzo e si ritrovò a pensare di nuovo: «E gli imprevisti?» si disse con un singhiozzo strozzato che lo lasciò seduto in mezzo al letto, ormai in preda al panico; infatti, era vero! Da un po’ di tempo in qua gli andava tutto storto e non si poteva non pensarci; gli imprevisti bisognava metterli in conto. E come, se bisognava!

Non ebbe nemmeno la forza di farne dei commenti; la rassegnazione gli s’era ormai dipinta addosso, gli s’era ormai incarnata dentro. Prese un’altra volta la sveglia e la regolò sulle cinque, poi, non tanto ben sicuro di quel che stesse facendo, la anticipò di un altro abbondante quarto d’ora e, tanto per non sbagliare, si alzò e, per telefono, chiese anche alla società che lo svegliassero ad un’ora che, se n’accorse mentre lo diceva, le sole parole lo fecero vergognare di se stesso.

A questo punto la notte doveva già ben essere finita, perché, da quel che gli parve, di lì a poco sveglia e telefono suonarono assieme, trovandolo sveglio e talmente arrabbiato con tutto il mondo, che se avesse sputato sarebbe stato veleno. Fece persino a tempo a litigare ed a bestemmiare dentro al telefono, prima d’accorgersi che, all’altro capo, stava parlando con una macchina.

Il caffè non aveva tempo per farselo fresco, quindi mise a scaldare quel poco avanzato dalla sera prima e, mentre scaldava, riuscì a lavarsi e vestirsi di mala voglia. Poi, dopo il caffè si fece la barba, ma, arrivato a metà, il rasoio elettrico cominciò anche lui a sentire le ferie: diede due sussulti e, subito dopo, una fiammata che gli bruciò un sopraciglio.

«E adesso come faccio?» interrogava lo specchio, dove vedeva riflessa la figura di una faccia rasata a metà e con un sopraciglio carbonizzato. Si ricordò delle lamette, ma ne trovò soltanto una che, per di più, era quella già usata per grattare della vernice in eccesso, l’unica volta che s’era azzardato a provarsi col verniciare qualcosa.

Fu tragica, tragica e dolorosa, ma alla fine riuscì a radersi. Arrossandosi mezza faccia, procurandosi un taglio che richiese un cerotto, ma ci riuscì, ed adesso… adesso correva soddisfatto sull’autostrada Torino-Milano, tutto teso ad un dovere cui non poteva sottrarsi.

 

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Correva soddisfatto, soddisfatto e curioso, rispetto al traffico che vedeva in aumento; curioso ed interessato, del come mai tanta gente fosse in giro ad un’ora che, a parer suo, considerava in sostanza come fosse l’alba.

Al casello di Milano scelse l’uscita che gli parve la più propizia. C’erano solo due macchine davanti a lui, due macchine che si mossero indisturbate e, quando lui fece per accodarsi, si vide scendere la sbarra che lo bloccava.

«Ma non c’era lo sciopero?» chiese al bigliettaio che stava uscendo dal gabbiotto con in mano il blocco dei verbali.

«Sì, fino alle sette, adesso è finito.» gli rispose quello, intanto che leggeva la targa e cominciava a scrivere.

«E quelle macchine davanti a me, allora?» chiese ancora, con il sospetto di sapere già la risposta che n’avrebbe avuto.

«Quelle? Oh, quelle sono passate quando lo sciopero c’era ed io non ero ancora pronto con i verbali. Adesso lo sciopero è finito ed io sono pronto. Tenga, » disse porgendogli delle carte «siccome non siamo ancora pronti con i biglietti, dovrà andare a pagare alla direzione dell’autostrada.»

«Ah sì-ìì, sono molto contento, grazie. E… mi dica, dov’è la direzione dell’autostrada?»

«Sulla tangenziale Est. Lei da che parte deve andare?»

«Io devo andare ad Ovest.»

«Ah! Mi dispiace, signore, ma capirà, il servizio.» L’Erminio non disse nemmeno cosa ne pensasse del suo servizio, tanto lo sapeva già, era solo un’altra di quelle tante piccole cose che continuavano ad accumularsi e che, un giorno, lui lo sapeva che un giorno lo avrebbero fatto uscire pazzo di rabbia.

La tangenziale Ovest, dopo i primi pochi chilometri di traffico scorrevole, cominciò col vedere i primi ammassamenti, poi i primi rallentamenti e le prime brevi soste, poi si bloccò del tutto e fu tutto fermo.

«Cos’è successo?» si chiedevano l’un l’altro, invadendo per un attimo lo spazio privato di quanti stavano vicini.

«Ma? Non si sa, pare che ci sia un incidente!»

L’Erminio cominciò col tamburellare le mani sul volante. Poi, siccome quel tamburellare distratto stava diventando un crescendo, prima che si trasformasse in pugni picchiati con rabbia impotente, staccò le mani e se le mise conserte, cercando di estraniarsi nei suoi pensieri, poi s’accese una sigaretta.

Sentì e vide passare i pompieri, sentì e vide passare l’ambulanza, ed intanto: sempre fermi. Il tempo gli stava passando davanti inesorabile e tutto il vantaggio che s’era preso partendo esageratamente in anticipo, adesso lo vedeva ridursi al lumicino; talmente al lumicino da metterlo quasi in condizione di ritardo.

Anche il sole aveva ripreso servizio, ed assieme al personale dell’autostrada, stava anche lui facendo il suo dovere come meglio non si poteva. Il caldo si stava facendo sentire e, per di più, bisognava anche scegliere «O si muore disidratati mantenendo i finestrini chiusi, » cercava di decidere l’Erminio «…o si muore soffocati dai fumi di scarico; perché ’sti prepotenti con l’aria condizionata, pur di stare al fresco loro, terranno i motori accesi fino a quando non vedranno qualcuno che stramazza a terra.»

Venti minuti c’erano voluti. Venti minuti di un’attesa sfibrante dove, dopo aver guardato in faccia a tutti, dopo averne osservato le espressioni anonime, dopo averne valutate le caratteristiche e dopo aver misurato ad occhio e croce la circonferenza della testa di ognuno, per farne poi una media, aveva anche avuto il modo di ripassarsi per benino tutto il programma della giornata.

S’era tristemente accorto che gli stavano pure suonando il campanello d’allarme. Tra poco la S.A.M.E.A. avrebbe aperto e lui stava ancora tentando di raggiungerla; altro che ad arrivarci per tempo, da poter essere il primo ad essere servito!

Da quella sosta era ripartito piano, a singhiozzi, col sistema dell’ora vado ed ora mi fermo, ma, dopo una decina di minuti d’incertezza, il traffico era ripartito spedito e, nel giro di poco più di mezz’ora, il sole, che già da un po’ aveva cominciato ad arrostire l’asfalto, lo vedeva varcare il cancello della sua meta.

Doveva esserci arrivato anche più presto di quel che non sospettasse, dato che il cortile era zeppo di camion non ancora partiti, ed un po’ dappertutto aleggiava quell’aria affannata ed un poco concitata, di un lavoro che si stava avviando; con il signor Baffigo che, con le braccia cariche di documenti, si stava prodigando da un camion all’altro, da un autista all’altro, ed entrava ed usciva dagli uffici che davano sul cortile, con un’aria d’efficiente competenza che non gli si era mai vista.

«Buongiorno signor Adiamoli!» lo salutò con doverosa premura, abbassandosi all’altezza del finestrino, per non fargli mancare il suo sorriso di benvenuto «Parcheggi pure e vada in ufficio a prendersi un po’ do fresco, che tra un momento sarò là anch’io.» lo congedava con la sicurezza di chi sapeva il fatto suo; poi, facendosi più attento: «Cosa le è successo in faccia, ha avuto un incidente?» ma il furgone dell’Erminio si stava già allontanando ed il Baffigo, come risposta, si dovette accontentare di un generico svolazzar di mano.

«Buon giorno signor Adiamoli!» lo salutava anche la segretaria, la signorina Franca che, dal suo posto, seduta comoda dietro la scrivania difesa dall’aria condizionata, sembrava del tutto assorta nel delicato lavoro del rifarsi le unghie «Come mai la vedo qua, non è andato in ferie?»

«No, non ancora, ma da quel che vedo anche voi non scherzate; col lavoro, voglio dire.»

«Oh, per carità, non dica più niente, …non dica più niente, che se fosse per me…» diceva contemplandosi controluce, parte del lavoro già fatto «che poi…» aggiungeva distratta, riprendendo la limetta per dare un altro ritocco «che poi, con quel che sta succedendo!» L’Erminio cominciò a sentirsi addosso un ben conosciuto formicolio:

«Che cosa vuol dire, signorina Franca, vuol forse dire che quel che ho ordinato non è disponibile?»

«Oh no, non è per quello! Il suo ordine mi pare sia già stato evaso! No no, è in generale, che dico.»

«È per lo sciopero, allora? C’è lo sciopero anche qui?» cercava di capire l’Erminio, che quell’oca di segretaria parlava sempre per enigmi.

«Lo sciopero? Di che sciopero parla, scusi?» chiedeva il bipede con aria distratta, sempre intenta alla sua occupazione e con quel tipo d’atteggiamento e di voce lagnosa ed impersonale, come di chi non gliene può fregare di meno.

«No, niente, sull’autostrada c’era lo sciopero e pensavo che riguardasse anche voi.»

«No no, figuriamoci, ci sarebbe mancato più solo quello...!»

«Bhè! E allora?» provò l’Erminio, a recitare la parte dell’intemperante «No, dico, se la mia roba è pronta, datemela, no?! Datemela che me ne possa andare.»

La signorina Franca non rispose subito, era troppo occupata con le unghie. Adesso doveva aver finito il lavoro grosso, ma, con la limetta, continuava a ripassarle da un dito all’altro. Due colpetti qua, altri due là, e ad ogni intervento di finissaggio, dispiegava il lavoro allargando la mano e, allontanandola dagli occhi distendendo un poco il braccio, valutava e prendeva coscienza dell’opera che si stava compiendo. Poi, per il momento parzialmente soddisfatta, al momento dell’attacco al prossimo dito, si decise a dare risposta, con la solita voce lagnosa, ad una domanda che lei trovava così inutile, così scontata…

«È il signor Baffigo che la deve sdoganare, ed il signor Baffigo per adesso è impegnato.» diceva lentamente, staccando bene le parole ed adottando la cadenza di chi sta parlando con un bambino scemo. Doveva proprio pensare che certa gente non voleva capire la ragione; poiché, dal tanto ch’era impegnata nel lavoro suo, dava risposte senza nemmeno alzare la testa e, in più, lasciandosi sfuggire una punta di sorriso agli angoli della bocca.

«E non me la può dare lei, scusi! Deve solo consegnarmela, in fondo.» provava l’Erminio con un ultimo tentativo, anche se sapeva che quella battaglia era già stata persa ancora prima d’essere iniziata.

«Io?! Via, non scherzi signor Adamoli! Io ce l’ho il mio lavoro da fare; e poi dico: il regolamento? Dove lo mettiamo il regolamento?» L’Erminio preferì non farle sapere dove avrebbe potuto mettersi il suo regolamento ma, in un ultimo tentativo di ribellione, gli venne in mente di potersi rivolgere a qualche superiore.

«Il direttore non c’è?» chiese, anche lui con l’aria che cercava d’essere distratta, toccando e bighellonando con le mani sul bordo della scrivania.

«Il dottor Barino? No, il dottor Barino è in vacanza in Sardegna.» rispondeva l’oca, con calma rilassata, rimirandosi una volta ancora la mano tenuta lontana dagli occhi ed oscillando la testa, per poterla guardare dai diversi punti di vista.

«E quell’altro...?» cercava l’Erminio di ricordare il nome che leggeva ogni tanto sulle fatture «Quell’altro…Ah sì, il signor Lanfranconi, nemmeno lui, c’è?»

A quel nome, l’oca diede quasi un balzo sulla sedia e mancò poco che la limetta le sfuggisse di mano, andando così a deturpare l’opera che stava compiendo.

«Il Dottor Lanfranconi?» chiese con un singulto d’allarme «Il Dottor Lanfranconi, il Direttore Generale, l’Amministratore Unico? Ma il Dottor Lanfranconi è al Congresso.»

«Ah, anche lui?»

«È sì, partecipa ad un congresso alle Maldive!»

L’Erminio cominciava a sentirsi dello sconforto che gli causava come un vuoto allo stomaco. Un’altra delle sue battaglie perse, un altro di quei mille intoppi che sembravan fatti apposta per venire a rovinare la vita sua, proprio a lui, che n’avrebbe fatto tanto a meno. Ma non era di sicuro il caso di disperarsi, si riscosse subito, di lì a qualche momento ed il signor Baffigo sarebbe arrivato per risolvergli il problema.

«E poi, scusi sa…» lo distraeva dai suoi pensieri la signorina Franca, sempre con quell’aria impersonale, sempre assorta in quel compito suo che s’era eletto come ragione improrogabile «…mi scusi, ma il Commendator Lanfranconi non è mica una persona da tirare in ballo così…per cose da così poco conto, voglio dire!»

«E sì, » pensava l’Erminio «saranno anche cose da poco conto, ma qui intanto non c’è nessuno che si occupi di soddisfarmele!» pensava mentre si sedeva rassegnato in un angolo «E poi quest’oca che non sa fare altro che limarsi le unghie, a me sta dando sui nervi.» S’alzò ancora per cercare un posacenere. Nel prendersi una sigaretta gli venne istintivo di contare quante n’eran rimaste; gli pareva d’aver già fumato abbastanza, per essere di mattina, ma la Secondina era in ferie, non era lì in giro a rampognarlo ed a contargliele una ad una come fossero dosi da farmacia, quindi fu col sorrisetto lubrico e gli occhietti maligni che se ne cacciò una in bocca e che, alla prima boccata, gli parve persino più buona del solito.

Si rimise seduto, calmo, buono e tranquillo, che tanto, aveva già capito lui, che tanto per adesso non c’era altro da fare se non stare a guardare l’opera d’arte che si stava producendo alla scrivania.

«E…cosa le è successo in faccia?» chiedeva l’oca tanto per chiedere, tanto per dire; senza alzare la testa dal lavoro, con quel fare che voleva essere d’intrattenimento ma che denunciava subito quale poteva mai essere il suo vero interessamento.

La signorina Franca, l’oca, come la chiamava lui, era una ragazza sui trentacinque anni, più bella e più appariscente della Secondina e, sicuramente, anche più studiata.

La Secondina, povera tabacón, come lui la definiva, era una di quelle ragazze che s’erano impiegate a quattordici anni come ragazzine d’ufficio, e che, impegnandosi, avevano imparato tutto il meccanismo della contabilità e dell’organizzazione, tanto, come nel caso suo, da poterne prendere la direzione. Questa, no, questa, la signorina Franca, questa si vedeva che aveva seguito un’altra strada.

La signorina Franca Donati proveniva da una famiglia benestante. Si vedeva dal fisico che portava in giro e dal tocco di classe che la distingueva; lo si vedeva da quel qualcosa che la catalogava subito come appartenente ad una casta privilegiata, ad un censo che nulla aveva a che fare con i comuni mortali. Una bella ragazza, insomma! Alta, sempre elegante, sinuosa e flessuosa, sicuramente di stile.

Peccato per la testa, però! Non che fosse mal fatta, anzi, portava a spasso un faccino con due occhioni che bastava guardarli per sentirsene emozionati, peccato però che quella bella testolina fosse vuota. Ma proprio vuota, vèh! Vuota come di più non si poteva, vuota da sentirne il rimbombo, vuota da considerarla, appunto come lui faceva: un’oca, un’oca giuliva.

Aveva frequentato tutte le sue belle scuole poi, più che altro per soddisfare una sua idea d’autonomia, aveva deciso d’impiegarsi e di andare a vivere da sola.

Viveva di una sua indipendenza mal sopportata dalla famiglia che in lei aveva deposto altri programmi e si spendeva la gioventù tra l’impegno di quel lavoro, che poi non era che la impegnasse un gran che più in là dallo scaldare la sedia con quel suo bel culetto, e la costante ricerca d’un uomo che, come lei diceva, la sapesse soddisfare, la sapesse realizzare.

Cosa avesse mai avuto da realizzare, con quella testa che si ritrovava, era una cosa che la signorina Secondina non aveva mai saputo spiegare. La signorina Secondina, sì, perché era lei che, non si sapeva come, ma pareva riuscisse a sapere tutto di tutti ed a tenere costantemente informato l’Erminio sugli affari di questo o di quello, durante le estenuanti ore di lavoro che lui, poveretto, doveva sorbirsi in ufficio.

Lui, l’Erminio, per la verità aveva sempre sospettato che dietro al sciorinarsi di quei pettegolezzi c’era anche una buona dose d’invidia o di gelosia, ma che farci, le donne erano donne, l’ufficio era piccolo e c’erano solo loro due e, se una parlava, l’altro non poteva far altro che stare a sentire.

S’era sentito raccontare, con la maligna punta del sarcasmo, la storia dei conviventi che, alla signorina Franca, non duravano mai più d’un paio di mesi; s’era sentito, tra le altre, la storia dell’amore folle tra l’oca ed un poeta Rumeno, che alla fine era pure sparito lasciandola in un mare di debiti; poi quella del chitarrista rok, un esistenziale che l’aveva trascinata in India per meditare insieme a lei e la sua chitarra, e che, medita tu che medito anch’io, dopo una meditata di quelle giuste l’aveva piantata là, senza una lira, per tornare con un’altra. S’era sentito anche di quel Marocchino…o Negro d’Africa…o qualcosa del genere, insomma.

«Una montagna di muscoli, un primitivo, un cavallo da corsa!» provava a descriverlo la Secondina «Pensi, signor Erminio, una cosa… ma una cosa…una cosa che non so, io! diceva con gli occhi lucidi, con lo sguardo vagante ed uno strano prurito che la costringeva a toccarsi un poco dappertutto, senza mai saper bene dove mettersi le mani. Salvo poi passare al patetico, alla comunanza psicologica, anche se non condivisibile, e su questo si affrettava sempre a volerne porre l’accento, quando si seppe di quella nobildonna che, pur da sposata, trovava il tempo per torbidi interessi in ragazze provate dalla sfortuna.

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 «No, no, no!» urlava il signor Baffigo, spalancando di colpo la porta e precipitandosi in ufficio come una furia «Così non và.» diceva a nessuno in particolare «Così finisce che mi faranno impazzire senza nemmeno aver risolto nulla!»

La signorina Franca smise per un attimo la sua concentrazione sulle unghie. Non che abbandonasse lima, vernicetta e quant'altro ingombrava una buona porzione di scrivania, no, quello no, quello continuava a tenerselo in bella mostra come ad indicare che il suo lavoro per quel giorno era quello e quello intendeva svolgere; ma solo che per un momento aveva deciso di sospendere e di dar retta ad un signor Baffigo che arrivava ad interromperla e che sembrava pure avere un’aria un po’  stravolta.

«Lei signorina, ha già provato a cercare il Damiani?» chiedeva il Baffigo con la testa bassa ed i pugni piantati sulla scrivania, giusto a poche spanne dall’armamentario di rifacimento unghie.

«Sì, l’ho cercato ma non risponde nessuno.»

«Come, non risponde nessuno, non sono ancora le nove e se uno è in casa dovrà pur rispondere, no-oo? Provi ancora, per favore.»

«Sì, certo signor Baffigo, se uno è in casa, però! Non si dimentichi che oggi ne abbiamo tredici, ed al tredici d’Agosto, se non si hanno impegni, è difficile che uno se ne stia in casa.» puntualizzava la signorina Franca, decidendosi a dar mano al telefono.

Compose il numero dimostrando tanta capacità professionale, accavallando le gambe ed usando la matita per far girare la ruota di selezione; che lei le unghie non aveva ancora finito di farsele e non voleva di certo finire per rovinare tutto un lavoro che le stava venendo così bene.

«Non risponde nessuno.» annunciò poco dopo, allargando le braccia, in segno di resa, con ancora in una mano la cornetta e la matita nell’altra «Io credo sia andato in vacanza.»

«Ma come, in vacanza! Aveva detto che sarebbe stato disponibile!» s’aggrappava il Baffigo all’ultima possibilità.

«No, » lo interruppe la Franca «veramente aveva detto che, se mai l’avessimo trovato al telefono,…alllooora, sarebbe stato disponibile. Ma dal momento che non c’è…» Ora, oltre alle braccia alzate in segno di resa, c’era pure una bell’alzata di spalle, che indicava in modo chiaro ed univoco di quanto lei si preoccupasse delle disavventure che parevano intralciare quel caldo mattino d’Agosto.

«E adesso come faccio, io? Come faccio…» diceva a se stesso l’altro, con l’aria persa «C’è qualcosa d’importante da dover consegnare?»

«Oh sì, signor Baffigo! C’è ad esempio quel carico di bombole di gas.»

«Dov’è che devono andare?»

«Devono andare in bass’Italia, signor Baffigo, alla PARLATO s.p.a.»

«Figuriamoci!» cominciava a scomporsi nella voce «Proprio alla PARLATO s.p.a. Una acciaieria. E se per la nostra mancata consegna dovessero spegnere gli altiforni?» si anticipava il dramma con un singulto «Come faccio, io. Come faccio! Qui finisce che ne vien fuori un disastro»

«Signor Baffigo, » provò ad interloquire piano l’Erminio. Sottovoce, quasi con timore, quasi come se lui non volesse proprio entrarci, ma dato che già c’era dentro per forza…  «se magari volesse sistemare la mia consegna? Tanto le ci vuole solo un minuto; poi, forse, potrà occuparsi meglio di quel che l’assilla.»

«Dopo, signor Adamoli…Dopo.» lasciò cadere il pover’uomo, con calma imposta, come fosse stata una dichiarazione.

Stette ancora per qualche momento immobile, fermo dove stava, con gli occhi assenti e l’aria smarrita, poi, fattosi coraggio, diede un gran respiro e si decise a tornar fuori; dove il caldo, l’afa che cominciava a farsi sentire e chissà cos’altro ancora, lo stavano aspettando. Si fermò ancora un attimo, a mezzo sulla porta «Chi è che deve fare il viaggio alla PARLATO» chiese ancora, come se si aspettasse una sentenza.

«Ma il Trovasi, no?! È sempre lui che ci va!»

L’Erminio non s’azzardò nemmeno di provare a portare le sue ragioni, capiva che stava assistendo ad un qualcosa di grave, così si rimise seduto e riprese la sua forzata supervisione nell’osservazione del lavoro di restauro che, la signorina Franca, da imperterrita e menefreghista, riprendeva con tutto l’interesse.

«Per adesso, » pensava l’Erminio «per adesso e magari per un altro po’, poi se non mi daranno retta, allora mi farò sentire.» si riprometteva, ed il solo sentirsi in condizioni da battaglia, già era sufficiente per sedarlo, per chetarlo e per toglierlo dall’ansia dello stare a perdere tempo. Con che coraggio poi si sarebbe fatto sentire, questo era tutto da vedersi, ma la sola decisione d’aver preso una posizione, una decisione maschia, questo solo, per adesso, era una condizione d’animo che già lo appagava.

«Che cosa crede quello là, » si diceva da solo, continuando l’umor guerresco che si sentiva inaspettatamente in corpo « no, perché, se lo ricordi bene che io gliene canto quattro, nèh! Io gliene canto quattro e lo metto sugli attenti, nèh!» si consolava con quest’illusione spavalda, mentre tornava ad assistere ai lavori del restauro infinito che, unico intrattenimento, già lo tenevano occupato da quasi mezz’ora.

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 Quello là, il signor Olimpio Baffigo, l’eroe del giorno, appunto, era un giovane di una trentina d’anni.

Figlio di madre nubile, oltre a condividerne il cognome, s’era anche trovato l’adolescenza e la gioventù compresse da un’idea d’educazione del tutto personale, che la madre andava sbandierando ed imponendo come una regola dell’assoluto. Chi fosse stato suo padre, non lo aveva mai saputo ma, da quel che diceva la madre, assolutamente, lui,  non avrebbe mai dovuto assomigliargli in niente. Era il senso del dovere, che quella buona donna si sforzava in modo esasperato di inculcargli dentro il cervello. Era il senso d’essere uomo, d’essere fermo, d’essere cosciente e di non assomigliare a qualcuno…a qualcuno che non sapeva nemmeno assumersi le proprie responsabilità…

E così era cresciuto. Studiare: più degli altri, perché si sa, se ti manca il padre devi pur dimostrare di valere lo stesso, no? Giocare: meno di tutti, perché si sa, l’ozio ed il buon tempo portano a brutti vizi; ed in quanto al godersi un tantino di libertà: ma per carità, di quello non se n’era parlato proprio mai, perché con la libertà guarda te dove si finisce. E poi, insomma là, ma dopo tutti i sacrifici che una mamma ha dovuto fare per allevare un figlio, non era certo il caso di deluderla col mettersi a correre la cavallina!

Ma quale cavallina!! l’Olimpio Baffigo era cresciuto complessato e stressato da farne pena. Incapace di rapporti che andassero più in là della collaborazione professionale e, in testa, un unico chiodo fisso; così come sognava sua madre: emergere, affermarsi, e farsi una posizione. In una parola: vincere.

Quel giorno, quel tredici d’Agosto, lui e la madre lo stavano aspettando da vent’anni. Vent’anni di scuola, di preparazione, di corsi su corsi d’aggiornamento e di perfezionamento e, soprattutto, vent’anni di lavaggio del cervello da parte d’una madre che, nell’unico figlio, vedeva l’occasione di rivincita sopra una vita che l’aveva trattata così male.

Vent’anni che, se non altro, oltre ad averlo creato un po’ nevrotico e un poco complessato, lo avevano però trovato pronto a rispondere di sì, due mesi prima, quando il direttore, il dottor Barino, lo aveva chiamato per fargli la proposta d’essere lui a sostituirlo per quella settimana in più, che lui meschino, stanco com’era, sentiva proprio di non poter farne a meno dal doversela aggiungere alle ferie.

«Se la sente Baffigo?» lo interloquì dall’alto al basso, con la bonaria condiscendenza di Sua Altezza verso la plebe «Ne ho già parlato con Lanfranconi, sa… » mentiva «ne ho già parlato ed è d’accordo anche lui. Guardi che se dovesse aver dei dubbi è meglio che ce lo dica subito, sa?» ecco, fu soprattutto questo che lo fece decidere. Di là del piacere di sentirsi investire da tanta responsabilità, c’era stato quel plurale, quel “ce lo dica subito” che lo avevano fatto tremare d’orgoglio. Il plurale indicava che c’era stata una discussione, una scelta, una decisione. Indicava che s’era fatto il suo nome; presagiva che il suo nome era stato discusso, era stato valutato, era stato soppesato, forse, anche dal Direttore Commendatore Amministratore Unico Delegato, Dottor Lanfranconi. Si poteva forse essere più orgogliosi di così? Era stato scelto proprio lui, proprio lui, e non il suo collega Damiani, anche se l’altro vantava più esperienza; si era chiesto a lui: l’oscuro impiegato che, per trovargli un ufficio, lo si era dovuto ricavare alzando una tramezza ed incunearlo tra il sottoscala ed il bagno, riducendolo così tra umidità, profumi molesti, e risonanti sciacquoni.

«Pazienza, Olimpio, » lo esortava la madre «pazienza che, quando uno vale…alla fine ci s’accorge di lui.» E lui di pazienza n’aveva avuta, n’aveva avuta talmente tanta da dedicarsi al suo lavoro con anima e corpo. Al punto dallo scriversi tutto, ma proprio tutto, per essere sempre pronto ad ogni domanda e per non correre il più piccolo rischio di dimenticarsi qualcosa.

Appuntava ogni più piccola inezia su dei bigliettini che ricavava ritagliando le parti lasciate in bianco dalla carta di scarto e di quei bigliettini n’aveva sempre tutto pieno il ripiano della scrivania; che li passava e ripassava ad ogni momento, che li curava ed ordinava con amor di chioccia, perché da lì ne derivava l’organizzazione della sua giornata. Salvo che, un giorno, qualcuno lasciò aperta una finestra durante un temporale ed un mese di programmazione finì per accumularsi, in modo irrimediabile, sotto mobili inamovibili e negli angoli più disparati.

Ebbero tutti a riderne di quella disavventura, tutti tranne lui, e qualche tempo dopo, quando il dottor Barino ad una cena di lavoro con dei fornitori, tra una barzelletta e l’altra gli venne in mente di raccontare anche quella; n’ebbe un tale successo che, il giorno dopo, si vide arrivare in ditta uno scatolone pieno di blocchetti con fogli staccabili, già gommati e pronti per essere appiccicati ovunque.

«Hai visto, » gli diceva la madre «hai visto che il tuo lavoro è stato riconosciuto? Adesso ti hanno procurato della carta apposta per te. Questa è una cosa importante! Ricordalo!» Anche il Baffigo era contento, anche lui si beava nell’illusione che qualcuno, in alto, avesse badato a procurargli un nuovo strumento di lavoro così importante.

Per la verità, però, gli dava un certo fastidio che quei bigliettini per gli appunti sponsorizzassero, in bella vista e con ampia descrizione d’uso, la marca di un lassativo; ma che farci, si diceva, non si può mica avere tutto, no?! Se gli erano stati procurati perché s’era capita l’importanza e la competenza del suo lavoro, tanto valeva farseli andar bene senza tanti scrupoli e dimostrare a tutti di quanto lui  ne apprezzasse il pensiero.

Aveva iniziato subito ad usarli tanto da quasi tappezzarne l’ufficio. Mezza scrivania n’era appiccicata, dove lui, attentamente, ne toglieva quelli scaduti e spuntava quelli in via d’esecuzione. Sempre attento, quasi circospetto, sempre vivendo tra quel suo lavoro di catalogo ed i rumori provenienti dal bagno, tanto che, dopo un certo tempo, dallo stile dello sciacquone e da altri indicibili particolari, avrebbe persino potuto dire chi, in quel momento, ne stesse traendo sollievo.

Eran così passati due mesi; due mesi di grandi idee, due mesi in cui i due, lui e la madre, si provarono di già col fare i calcoli sui tempi e sui successivi gradini di quella che, ai loro occhi e nelle loro illusioni, sarebbe stata una sfolgorante ascesa in carriera.

Poveretti! Non sapevano loro che quei famosi bigliettini erano stati procurati solamente per un divertente sfottio. Non sapevano nemmeno che il Dottor Commendatore Amministratore ecc. ecc. non era alle Maldive impegnato in un congresso, come aveva raccontato in famiglia ed al resto del mondo. No, a quel congresso, se mai ci fosse stato, avrebbero partecipato solo in due: lui e la segretaria ventenne d’un ufficio consociato. No no, non sapevano nemmeno che il Dottor Barino, quello che stava in Sardegna nella villa che s’era costruito distogliendo le plusvalenze sui finanziamenti della Comunità Europea, lui in vacanza non avrebbe nemmeno dovuto andarci. Lui sarebbe dovuto stare in ufficio ad occuparsi della direzione, ma com’è che si dice…quando manca il gatto…ed il Barino, da buon topo, facendo una pernacchia virtuale al Dottore Eccellentissimo ecc. ecc. aveva pensato bene di metter sotto quel povero cristo dell’Olimpio Baffigo e di darsi latitante anche lui; altrimenti cosa s’era direttori a fare! E poi, insomma, per prima cosa non ci sarebbero stati problemi di sicuro: perché il Lanfranconi sapeva che il Barino sapeva! Anzi, lo sapeva al punto che la ragazza, l’accompagnatrice, sì…insomma…la seconda partecipante al congresso dei solitari, essendo il Barino che l’aveva presentata era in sostanza come se l’avesse procurata lui. E per seconda…per seconda se non ci fosse stato quel mezza calzetta del Baffigo, lui, la vacanza, avrebbe anche potuto sognarsela. Chi infatti, avrebbe mai accettato di sostituirlo nella settimana di Ferragosto? L’impiegato anziano, forse? Il Damiani? Ma il Damiani tra la prostata, la dialisi ed il diabete, era già tanto se di mattina si presentava al lavoro; quell’altra? La Franca? Ma per carità! Quella era un’oca, buona solo di preoccuparsi d’avere il letto caldo; e quindi…quindi era rimasto solo lui: il Baffigo, per l’appunto!

Ma loro due, poveretti, loro non sapevano di questi armeggiamenti ed avevano passato quei due mesi di preavviso in un mondo a mezz’aria; in un mondo che, oltre a prepararli fisicamente e psicologicamente al grande evento, li fece anche vivere tra sogno e realtà, tra possibile e fantastico, tra quel che era e quel che avrebbe potuto essere.

«Mi raccomando, nèh!» lo aveva salutato il Dottor Barino dal finestrino, rallentando per un attimo la portaerei in partenza «Ci raccomandiamo tutti!» aveva rimarcato sul plurale, per incidere ancor di più sulla personalità del dipendente «Lei faccia bene il suo lavoro e dimostri che se la sa cavare, che poi…» era appunto su quel  “che poi” che l’Olimpio stava costruendo i suoi miraggi, era su quel “tutti” che lui puntava le sue speranze e camminava senza nemmeno più sentirsi i piedi per terra.

«Anche perché, parliamoci chiaro, » ragionava con sua madre «se ha parlato al plurale vorrà ben dire che oltre a lui intendeva qualcun altro, no? Magari la Direzione Generale, magari il Commendator Lanfranconi...»

Pronunciava sempre quel nome non avendo mai il coraggio di dirlo in modo chiaro. Lo diceva sempre sottovoce, con la testa bassa, tendendo a rannicchiarsi e roteando gli occhi attorno, quasi per paura che qualcun altro avesse avuto a sentirlo.

“Non Nominare il Nome del Commendatore Invano” sembrava essere il suo credo, e da quel dogma non aveva mai derogato, tanto che, la notte prima, non aveva nemmeno dormito, sentendo in anticipo le responsabilità delle alte cime, verso cui era stato chiamato.

S’era alzato alle sei, che tanto era inutile perder tempo, e disdegnando il termos col caffelatte ed il pacchetto di biscotti, che da anni lo accompagnavano tutte le mattine, alle sette, aveva deciso di fermarsi per la colazione in un bar ben frequentato dove, da impiegatuccolo qual’era, non aveva mai osato entrarci.

Consumò il suo cappuccino e cornetto con lo stile consumato di chi da anni frequentava l’ambiente giusto. A stento riuscì a trattenersi dall’intervenire in una discussione che avveniva alle sue spalle, ma quel “noi dirigenti” che aveva sulla punta della lingua come prologo al suo intervento, finì per portarselo dietro per tutto il pezzo di strada a piedi che lo separava ancora dalla S.A.M.E.A.

C’entrò alle otto meno un quarto, dove, con atteggiamento serio e passo sicuro, si apprestò a reggere le redini dell’azienda con polso fermo di chi sa il fatto suo e lo stile personale che, lui sapeva, lo avrebbe contraddistinto.

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 Si spalancò di nuovo la porta e, come avesse suonato un gong ed il pugile suonato in un’impari lotta ritornasse al suo angolo per riprender fiato, il Baffigo si precipitò ancora una volta in ufficio, cercando conforto da chi volesse fargli da secondo.

«Non ce la faccio, non ce la faccio, » sembrava dire ad ipotetici assistenti, poi, dopo qualche smarrimento e qualche indecisione, quasi con vergogna, provò anche con la Franca «…lei, signorina… lei non ce l’ha, per caso, qualche idea?»

L’unico a scomporsi, dando un salto di spavento all’apertura inaspettata della porta, fu solo l’Erminio Adamoli, la Franca, no! La Franca continuava imperterrita col suo grattamento d’unghie di cui l’Erminio, oltre che  stufo di stare a guardarlo, cominciava col sentirne anche un certo fastidio allo stomaco..

«I-ooo!» rispondeva l’oca, senza alzare la testa dal lavoro «Ma io no, signor Baffigo; però ho qui il numero di telefono del Dottor Barino… se mai le dovesse servire…» All’insinuazione di quella possibilità, l’Olimpio cominciò col dare in silenziose smanie. Prima fece una smorfia di disappunto, poi, non sapendo come muoversi, si mise a strusciare i piedi, ed infine, come fosse di nuovo suonato il gong, raccolse un lungo respiro e tornò fuori. La vampata di calore che si srotolò all’interno, all’aprirsi ed al chiudersi della porta, era già sufficiente a far intendere che razza di forno dovesse esserci all’esterno.

«C’è qualche problema?» si provò col chiedere L’Erminio. Il tempo passava e lui ormai, sulla cultura delle unghie, per quel che gli potesse mai interessare, pensava di saperne abbastanza, e poi óh, era già quasi un’ora che stava aspettando ed una spiegazione credeva che avrebbero ben potuto dargliela, no?

«Óh, non me ne parli, signor Adamoli! Questa mattina sembra proprio la fine del mondo.» rispondeva la signorina Franca, osservando attentamente il pollice che teneva un po’ discosto, cercando di catturare la luce da diverse angolature. Quell’unghia non le veniva così bene come le altre. Un lavoro perfetto, fino a quel punto, e poi… thè guada lì, un’unghia che le veniva un poco storta. Non proprio male, a ben guardare, ma aveva già visto di meglio. Non c’era simmetria, non era allo stesso livello delle altre.

«Questa mattina, » si degnò di continuare, parlando a scatti, con la lingua tenuta tra i denti,  cercando d’applicarsi con la massima concentrazione alla correzione del capolavoro «questa mattina…accidenti a quest’unghia che non vuole raddrizzasi…questa mattina, le dicevo…» e l’Adamoli, tra una limata e l’altra, fu informato di quanto stava avvenendo:

Pareva… pareva che quella mattina il Carletto Mantegazza non si fosse presentato al lavoro. «Chi è il Carletto? Ma il Carletto è il mulettista, no? Sì sì, lo sapeva anche lei che non tutto il mondo era tenuto a conoscerlo! Sì, sì, signor Adiamoli, sapeva anche che di lui il telegiornale non ne parlava mai. Ma in ogni caso, continuava la Franca tra una limatina ed un’altra, in ogni caso il Carletto Mantegazza abita in una casa a ringhiera. Sa, signor Adamoli, di quelle vecchie case a ringhiera con la scala esterna?.... Eh sì, cosa c’entra la ringhiera… ma è per via della scala, no?....Ecco, è qui che volevo arrivare, ma se lei non mi fa parlare, scusi… la scala c’entra perché il Carletto ieri sera è tornato a casa bevuto, come suo solito, del resto; che io lo dico sempre, “non bere, Carletto, non bere che ti fa male” ma lui niente, e così ha inciampato da qualche parte ed ha rifatto tutta la scala all’indietro, a ruzzoloni!.... No, mica tanto, poteva anche andar peggio, sa. Ha solo una spalla rotta, e così, ce lo siamo giocato per un bel pezzo….Certo che n’abbiamo bisogno! Se no, chi è che caricherà i camion, secondo lei?....Óh bella, ma cercare di sostituirlo è stata la prima cosa che abbiamo fatto, no! Solo che al tredici d’Agosto di mulettisti non ce n’è neanche uno. Ma proprio neanche uno, sa! Pare proprio che siano tutti in vacanza!....E allora, chiede lei? Ma e allora è proprio da lì che vengono i nostri guai. La fuori ci sono cinque camion che devono partire e l’Arduino li sta sobillando tutti che….Chi è l’Arduino? L’Arduino Trovasi? Ma l’Arduino è uno dei nostri camionisti, che per via della tenda… No, no signor Adamoli… no, non dica così… no, non è vero che la faccio impazzire. Mi segua con attenzione, scusi, perché se lei non capisce, alllooora…»

Pareva, ne prendeva atto l’Adamoli, pareva che qualche mese prima, all’Arduino, durante un temporale gli si fosse rotta la tenda che ricopre il camion…

«Come? E cosa ne so, io, se si chiama telone, scusi, quello che so, è che n’è venuto fuori un baccano d’inferno.» spiegava la signorina Franca.

Adesso sembrava persino meno concentrata sul suo lavoro di restauro, teneva sempre la limetta in mano pronta all’azione, questo sì, ma per il resto, era come se fosse più disposta al dialogo, più disponibile. Aveva persino alzato la testa e lo stava persino guardando in faccia, il che, da come s’era messa, era già un tutto dire.

Pareva, insomma, che la direzione avesse preso la scusa della rottura del telone per mettere l’Arduino in difficoltà. D’altra parte, continuava la Franca, anche l’Arduino non era mica che ci andasse tanto per il sottile, vèh!

 

 

L’ArduinoTrovasi, era un figlio del ’68. Oh Dio, veramente lui nel ’68 era ancora troppo giovane perché avesse vissuto quei tempi come realmente avrebbe voluto viverli; ma era stato dopo, era stato dopo quell’orgia di rinnovamento che lui s’era formato culturalmente «ed anche fisicamente, nèh, perché non dica signor Adamoli, ma se permette, l’Arduino è anche un gran bel ragazzo! Non trova?... Ah, lei non lo conosce? Ma è quel bel giovane, quello alto, con quella gran testa di capelli che…Sì sì, va bene, non divaghiamo.»

L’Arduino, pareva, almeno da quel che se ne potesse capire da quell’orgia di notizie strampalate, pareva che fosse sposato con una ragazza dei suoi tempi. Una che andava in giro vestita come una zingara e che non aveva perso mai un’occasione ne di partecipare a qualsiasi movimento di piazza ne di dare addosso alla polizia come fosse un dovere sociale.

«Öh, se è per quello è già stata arrestata più d’una volta, ma non è questo il punto, il punto è che lui è tale e quale a lei: un rivoluzionario, signor Adamoli, un rivoluzionario Bolscevico, come dice sempre il nostro Commendatore Amministratore Delegato.»….«No, lui non s’è mai cacciato nei pasticci, ma vede, signor Adamoli, lui è intelligente, che io glielo dico sempre, perché guardi, nèh, signor Adiamoli, guardi che come intelligenza, l’Arduino, bisogna lasciarlo stare, sa? Perché anche quella volta che… Sì sì, mi scusi, sto divagando un’altra volta.»

La Franca sembrava incapace di fare un discorso filato e tutto intero, senza discostarsene per strade che nemmeno lei sapeva dove l’avrebbero condotta. Era quasi una sofferenza lo stare ad ascoltarla, aveva ragione, lui, era proprio un’oca; ma tra lo stare a sentire una storia sconclusionata, e lo stare a guardare quel lavoro d’unghie, che si svolgeva in religioso silenzio contemplativo, l’Erminio, quasi quasi, cominciava ad optare per il primo.

Ebbe il suo bel da fare per tenerla sui binari della comprensione, si adoperò parecchio per mantenerla entro i confini del filo logico, ma, anche se con fatica, anche se con richiami duri delle briglie tenute strette, la storia continuò a sciorinarsi.

L’Arduino Trovasi, un po’ per sua naturale inclinazione, ed un po’ per non sfigurare davanti agli occhi della moglie, s’era autoassunto il compito di portare e far rispettare le regole sindacali nella S.A.M.E.A. Non era che fosse visto di buon occhio per questa sua idea. Anzi, dal giorno che aveva iniziato questo suo compito, s’era trovato a dover svolgere i viaggi più difficili, i viaggi più lunghi, quelli, insomma, che davan fastidio agli altri.

«E perché starebbe sobillando gli altri?» non poté fare a meno di chiedere, l’Erminio.

«Ma per via del muletto, no?!» gli rispondeva la Franca, quasi con atteggiamento paziente, quasi come se, quel che aveva in testa lei, fosse assolutamente facile da capire. Poi se n’accorse, poi, misurando col suo metro personale, se n’accorse che questo signor Adamoli che aveva lì davanti, sembrava sveglio, questo sì, ma secondo lei, doveva di sicuro essere solo apparenza, perché se non aveva ancora capito….!

«Adesso le spiego meglio...» si degnava d’essere accondiscendente.

«L’Arduino, quando s’era trovato la tenda rotta…sì sì, va bene, il telone, così va meglio? Óhh là; ad ogni modo, quando se l’era trovato rotto, per non finire che si rompesse ancor di più, l’aveva tolto, ma era stato fermato dalla polizia stradale che lo aveva multato per mancanza della tenda, o del telone, come preferisce lei. Lo sa lei che quella roba lì, quel telone lì, appunto, lo sa lei che è obbligatorio? Ad ogni modo alla Direzione eran tutti contenti che finalmente si sarebbe potuto dare una bella strigliata all’Arduino, e per quel fatto era stato punito con due giorni di sospensione dal lavoro… Cosa avrebbe dovuto fare, dice? Ma…non lo so…a me era dispiaciuto tanto, ma loro avevano detto che avrebbe dovuto fermarsi ed avvisare perché qualcun altro lo raggiungesse con un coso nuovo…sì sì, un telone nuovo… La motivazione, dice? Aspetti un momento…aspetti che ce l’ho qui sulla punta della lingua…a sì: negligenza e non applicazione dei regolamenti, hanno detto.»

«Ho capito, » affermava l’Erminio con un sorriso, riflettendo su come il Potere avesse sempre buon gioco «però non mi ha ancora detto del perché stesse sobillando gli altri autisti.»

«Óh Madonna, ma possibile che non capisce! Ma per il muletto, no!» insisteva ancora l’altra con un certo fare d’esasperazione «Se il muletto non c’è non si può caricare e se non si carica, i camion rimangono fermi, e dato che il Carletto è in ospedale…Óh mi Signur, no che non possono caricare gli autisti, c’è un regolamento sindacale che lo vieta. Ognuno deve fare il suo lavoro, altrimenti dove andiamo a finire, scusi!»

L’Erminio non se la sentiva d’informarla dove si sarebbe andati a finire, se ognuno avesse fatto il suo lavoro così come lo stava facendo lei, anche perché, proprio in quel mentre, tornò a spalancarsi la porta ed un Baffigo distrutto dai combattimenti, faceva il suo stanco ingresso.

«Senta signorina, a questo punto bisognerà prendere una decisione.» trovava il coraggio di ammettere.

«Èh sì, dottor Baffigo, direi proprio di sì!» ammetteva la signorina Franca a testa bassa, che, tanto per dimostrarsi anche lei affaccendata, non aveva trovato di meglio se non rimettersi ad occuparsi delle sue unghie.

Aveva finito con la lima, adesso, anche perché, avanti di quel passo non si sarebbe avanzata più niente; quell’unghia del pollice pareva non le fosse proprio venuta come lei sperava, ma per il momento, almeno, sembrava che così com’era potesse anche bastare. «Bisognera accontentarsi.» sembrava ammettere con se stessa, con fare di delusione. Adesso era passata al finissaggio; alla scrupolosa lucidatura e, unghia per unghia, all’accurata posa della vernice.

Madonna, pensava l’Erminio, la Secondina andrà in brodo di giuggiole quando potrà sapere di tutti questi sviluppi. Lui se la vedeva già davanti agli occhi, con quel suo fare perennemente eccitato, con quel suo culone che trotterellava sulle gambette lunghe una spanna scarsa; se la sentiva già nelle orecchie, con quella sua voce ininterrotta che pareva una radio dimenticata accesa.

«Lei ce l’ha il numero del Dottor Barino?» si decideva il Baffigo, a chiedere in tono riluttante.

«Sì, me lo ha lasciato. Me lo ha lasciato in caso d’emergenza.» rispondeva la Franca, facendo strisciare un bigliettino, usando il mignolo della stessa mano che reggeva il pennello, lungo il piano della scrivania.

«Ma io…veramente…io non vorrei chiamarlo, magari lo disturbo. In fondo questo numero le è stato dato per casi d’emergenza.» cercava ancora di defilarsi il Baffigo.

«E questo che cos’è, Dottore? Non è un caso d’emergenza?»

«Bèh…in fondo sì-ìì, mi pare, almeno. Ma io volevo risolverlo da solo.» ammetteva ancora con tutta la delusione che gli si stava disegnando in faccia.

«Ah bene, allora non lo chiami.» continuava l’oca, che non aveva ancora capito niente.

«Io…» ragionava da solo il Baffigo, senza rendersi conto che stava riflettendo a voce alta «io dovrei sapermi arrangiare da solo. Sono stato messo qui apposta, in fondo!» Era serio, era distrutto e l’Erminio, dopo le arruffate spiegazioni della signorina Franca, era persino disposto a capirlo.

Era stato con lo spirito del condannato che sale i tredici gradini della forca, che il Baffigo Dottor Olimpio, s’era deciso a sollevare il telefono.

Gli occorsero poche parole per spiegarsi, e dato che, forse per deferenza, oltre che stare quasi sugli attenti non teneva la cornetta del tutto appiccicata all’orecchio, in tutta la stanza rimbombava la voce cavernosa del Dottor Barino.

Con l’aria afosa dell’esterno che invadeva piano l’ufficio dalla porta lasciata aperta, e col silenzio innaturale del giorno di pre-Ferragosto, oltre al sottofondo monotono del trafficare della Franca, anche le parole che partivano dall’altro capo del filo cominciarono a rotolare sul pavimento: ingombranti, frustranti, pesanti come sassi.

Non era arrabbiato, il Barino, o almeno, all’Erminio non sembrava che lo fosse.

Sarà stato per il rilassamento, sarà stato perché era in vacanza, ma pareva piuttosto divertito, piuttosto sarcastico. Più che dare disposizioni, sembrava si stesse divertendo con le insinuazioni, con le toccate sferzanti di fioretto e con i doppi sensi persino pesanti. Faceva delle domande e, quando tutto gli fu chiaro: «Va bene, Baffigo, ho capito…mi chiami al telefono l’Arduino, per piacere, che questo problema lo risolvo io; anzi no, lasci stare, è meglio che lo chiami io sul numero privato del telefonino. Piuttosto…»

Il Baffigo in questione stava quasi scomparendo, ad ogni parola tendeva sempre col farsi più piccolo fino a che, raggiunto il massimo dell’annullamento, non potendo ne fare altro ne andare oltre, gli occhi gli si velarono di umido; e cercava persino di non parlare per non denunciare la voce che gli si stava arrocando.

«…piuttosto, » continuava l’altro «di quest’incidente sarà bene che ne informi anche il Lanfranconi.»

«NO!!» diede un urlo di disperazione il poveruomo «La prego, Dottor Barino, il Commendatore Lanfranconi, NO!»

Gli attimi di silenzio che seguirono furono parecchio pesanti; sembrarono attimi di vischiosa melassa che, invadendo la stanza, si fosse srotolata avvolgendo tutto e tutti. Pareva che tutto andasse a rilento, in un’afonia che s’era distesa dopo l’ultimo urlo disperato, lasciando nelle orecchie come un’eco che, l’immobilità del momento, lo rendeva fermo nel tempo e nello spazio. Le figure stesse dei presenti erano immobili. L’ufficio, i mobili, l’aria calda dell’esterno e l’afa che rendeva greve il respiro: tutto cristallizzato, tutto immobilizzato sull’eco di un urlo disperato.

«Via Via, non mi faccia il bambino, adesso.» riprendeva il Barino «Chi c’è lì in ufficio,  m’ha detto che c’è il signor Adamoli? Ecco, bene, lo serva e poi mi richiami; che se il Lanfranconi non lo vuol chiamare lei, lo dovrò chiamare io.»

Non valsero a niente le poche parole farfugliate, assieme a saluti ed auguri di prammatica. Non valse nemmeno che, assieme ai farfugliamenti, si prodigassero pure una serie infinita d’inchini; le ultime parole di saluto, da parte del Barino, valsero già da sole ad emettere la sentenza.

«Ah, un’altra cosa, Baffigo…non se la prenda, nèh, non se la prenda che tanto c’era già d'aspettarselo che andasse a finire così.»

In faccia al Baffigo gli si era dipinta la disperazione, la morte, l’annientamento, la segreta voglia di suicidio. Non se la sentì nemmeno di tornare nel suo personale ufficio a compilare la bolla d’accompagnamento per l’Erminio e spuntare “l’eseguito” dai suoi bigliettini. Pregò la signorina Franca di farlo, e questa, stranamente e senza dare in smanie d’insofferenza, slargò un braccio sul ripiano della scrivania, mettendo così da parte il suo armamentario e, rimirandosi le mani, invitò tutti a guardare come quel lavoro le fosse riuscito così bene.

«Poveretta, » pensava un’altra volta l’Erminio «qua dentro s’è svolto un dramma e lei si verniciava le unghie! Ma beata lei! C’ha ragione la Secondina, c’ha!...» si confermava, seguendola sculettante e canticchiante un motivetto in voga, verso quell’ultima commissione all’interno dell’azienda «…È proprio un’oca!»

Quando l’Erminio Adamoli fu servito e tornò ancora nel cortile per recuperare il furgone, che nel frattempo era stato caricato di quel ch’era venuto a chiedere, intanto che boccheggiava e con i primi passi all’aperto cercava d’incassare la vampata di calore da cui veniva immediatamente assalito, vide che, finalmente, gli autisti s’erano messi al lavoro. Avevano preso il muletto e s’aiutavano l’un l’altro, diretti di buona lena dall’Arduino Trovasi, a caricare quei cinque camion che, fin dal mattino presto, aspettavano tristemente che qualcuno s’occupasse di loro. Il Baffigo, no! Il Baffigo Dottor Olimpio lo vide solo dopo e di sfuggita: stava in un angolo, seduto sopra una cassa, sotto il sole e con ancora in mano il fascio inutile delle sue carte. Probabilmente non s’era nemmeno accorto d’essere al sole, probabilmente non aveva nemmeno compreso che, se fosse rimasto ancora, tempo un’ora e sarebbe stato cotto. Restava là, immobile e pensieroso:

Due ore era durata! Vent’anni di preparazione, due mesi di speranze e d’illusioni, ed in meno di due ore…in meno di due ore era stato messo fuori dal grande gioco del comando. Quel “noi dirigenti” che s’era sentito in bocca il mattino presto, prendeva ora un gusto d’amaro impossibile. Cosa avrebbe detto sua madre? Cosa avrebbe detto se l’avesse visto sostituito da un autista di quart’ordine?

 «Non era solo una possibilità che falliva, un’opportunità che veniva a mancare, ma era tutta l’impalcatura d’una vita che crollava miseramente.» pensava l’Erminio, ormai diretto verso le sue ultime mete e poi, finalmente a casa «Una punizione considerata ingiusta, per la mancata applicazione di certe regole, veniva usata dall’autista per rivolgerla contro la ditta, nel momento che sarebbe occorsa una maggiore elasticità verso quelle stesse regole che lo avevano condannato. Povero signor Baffigo, messo in minoranza da cose nemmeno dipendenti da lui, poi. Cacciato in fuorigioco da una serie di fortuite circostanze che s’erano venute ad accumulare tutte assieme; battuto da una botta di sfiga che, fin dal mattino presto, aveva deciso di aleggiare sopra la sua testa.»

L’Erminio Adamoli, quell’uomo che si sentiva lo jellato per eccellenza, si ritrovava umanamente partecipe con quel novello e disgraziato collega.

Erano poco più delle dieci, aveva perso due ore. Tra ritardi, sceneggiate e grattamenti d’unghie, era finito col perdere un paio d’ore; proprio quelle due ore che lo avrebbero tenuto fuori dal traffico caotico, proprio quelle due ore che avrebbero consentito di viaggiare un poco più al fresco.

«Ma di cosa vogliamo preoccuparci?» si diceva con se stesso, mentre si slacciava la camicia sino ad un punto impossibile «Quello di stamattina… quello sì che era un dramma!» rifletteva, mentre controllava ancora che i finestrini fossero tutti ben abbassati e, tanto per avere l’illusione di essersi liberato un po’ di più dall’afa e dal caldo che lo tormentavano, si slacciava pure la cintura dei pantaloni e ne toglieva, sollevandole, camicia e canottiera. «Le mie, in fondo, sono solo piccole cose.» si convinceva « E cosa vogliamo che siano: per un passaggio a livello che si chiude; per un casellante troppo zelante; per uno che ti sorpassa e ti spinge quasi fuori strada? Ma per carità, ma che saranno mai! Quelle del Baffigo… quelle sì! Quelle del nostro signor Baffigo sì, che sono disgrazie.»

La tangenziale, eternamente intasata, stava un’altra volta rallentando il traffico e, dopo un altro po’, manco a dirlo e si fermava del tutto.

«Cosa è successo?» chiedevano tutti uscendo dalle macchine e, montando sulla predella, cercavano di porsi in alto per vedere più avanti «Ma, chi lo sa, qui sta diventando un’abitudine!»

Il sole, che d’andare in vacanza non ci pensava nemmeno e che il servizio suo lo stava svolgendo senza l’ombra di scioperi o sospensioni, continuava implacabile ad arroventare le carrozzerie dei disgraziati che si trovavan per strada.

La termica ascensionale, causata dal calore abnorme, provocava, ovunque si posasse lo sguardo, la visione di figure tremolanti ed un poco evanescenti, quasi come d’anime in sospensione dentro un girone infernale.

Un’auto sportiva, zeppa di fregi e decalcomanie, facendo a gomitate e strombazzando da tutte le parti, cercava ad ogni costo di sorpassare sulla corsia d’emergenza: «Spostati, cornuto!» indirizzarono le quattro facce dalle espressioni tanto intelligenti, all’Erminio, quando furono alla sua altezza.

Ma l’Erminio nemmeno li sentì.

L’Erminio, per quel giorno e chissà per quant’altri ancora, la sua lezione di vita l’aveva ormai avuta.

F I N E

enrico  portalupi