Moon shine






Davanti a quella casetta dipinta rigorosamente di bianco, un poco appartata, nella periferia di una cittadina del Midle-West, quando vi arrivò il taxi che scaricò la madre con in braccio il suo fagottino, non c’era nessuno dei vicini ad accoglierli.
Li accolse solo la bella giornata di primavera, con il leggero vento a stormire tra gli alberi che contornavano i viali ben curati e la luce tersa del primo mattino che rifletteva il bianco della casa dipinta di fresco.
Fu quasi una specie di cerimonia privata, un evento che, madre e figlia, celebrarono nella più assoluta intimità.
«Ecco vedi, la vedi la tua casa, Moon,» diceva la madre, scostando un tantino la coperta in cui avvolgeva la bambina nata da pochi giorni «questa è casa tua. Abiterai qui, ed in più, in più avrai anche tutto questo bel giardino per giocare». La bambina sembrava non farci caso, ma la madre sapeva, lei sapeva che un giorno ne sarebbe stata contenta.
Avevano acquistato quella casa con tanti sacrifici e lo avevano fatto proprio in previsione di poterci vedere, un giorno, la loro bambina che ci correva per ogni dove. Ridente, urlante di gioiosi trilli, scalpitante come un cucciolo irrequieto; e così fu per davvero. Moon cresceva bene e cresceva bella. Paffuta come solo le bambine possono esserlo, con capelli biondi di un giallo carico e due occhioni color pervinca che, vivaci ed ammiccanti, minacciavano sempre di farsi mangiare di baci. Cresceva come tutte le bambine, insomma, anche lei avida di curiosità, avida di sapere ed impaziente di sperimentare, ma pareva anche pervasa da un’interiorità estranea alle sue compagne, un’interiorità che sembrava renderla un pochino diversa dalle altre.
Lei passava ore… passava giorni interi a giocare con le bambole. Lei con quelle ci parlava, ci discuteva, si raccontava. Con quelle sapeva costruirsi un mondo tutto suo dentro il quale ci viveva una vita immaginaria, tutta fantastica, ma di un’intensità tale, da rendere quasi estraneo il mondo esterno.
«Moon, dove sei?» la cercava apprensiva la madre.
«Sono qui, mamma, sono qui sui gradini della veranda.» era la solita risposta tranquillizzante; ed infatti era là che si poteva vederla. Sempre là, sempre sola, sempre con in braccio una bambola, impegnata in una conversazione interminabile; oppure era in giardino, seduta da qualche parte ma, sola, sempre sola e mai alla ricerca di compagnucce con cui giocare assieme.
La madre s’impegnava nello spingerla a socializzare, ma la bambina sembrava sempre stranamente refrattaria ai giochi collettivi o anche solo alla compagnia delle altre bambine.
«Ti piacerebbe andare sulle altalene, Moon, ti porto al parco giochi?»
«Certo mamma, ma solo se posso portare la mia bambola.» e da li la madre capiva che, a toglierla dal giardino o dalla veranda, le si sarebbe fatto un dispiacere. Il giardino era davvero una cosa mirabile. Era il meglio della casa. Lo curava da anni il vecchio Ying; un Cinese che sarà stato vecchio di cent’anni, tutto grinze, con la testa calva, ed una sottile barba bianca che arrivava quasi al petto, ma…con due occhi che, come carboni accesi, sapevano penetrare le cose e vederle anche dalla parte nascosta.
Si piacquero subito quei due. Nonno Ying era l’unico con cui la bambina si trovava davvero a suo agio, e ci discuteva con la stessa serenità che usava con le bambole. Prese a chiamarlo Nonno e ad aspettarlo con impazienza, le due volte a settimana in cui il vecchio veniva per assolvere il lavoro suo. Fu lui ad assegnarle per primo il nomignolo di Moon Shine, e lei ne andava quasi fiera.
«Ma cosa avrete mai da parlare così tanto, voi due?» chiedeva la mamma curiosa, quando, attenta a non rivelare sospetti, ma cercava in qualche modo di sorvegliare il comportamento di vecchio e bambina.
«Mi racconta delle belle storie, mamma. Nonno Ying mi racconta sempre delle storie bellissime.» ma di quel tanto che la madre facesse, di quel tanto che ci provasse, delle storie di Nonno Ying non seppe mai raccoglierne traccia. Non poteva, la bimba, render partecipe chicchessia delle favole che il Nonno le raccontava. Erano storie troppo belle perché potesse condividere, e così, di mano in mano che le sentiva, se le chiudeva dentro il cuore, attenta e gelosa che nessuno potesse scoprirle. Nonno Ying le raccontava della luna, le raccontava di come guardarla, di come capirla e di come poter parlare con Lei; e la bambina ascoltava e ascoltava, ascoltava affascinata, ascoltava e ascoltava quelle storie fantastiche con la bocca aperta e gli occhioni spalancati. La bambina sognava, la bambina imparava a sognare; era appunto questo che il vecchio le insegnava: prendendo a pretesto la luna, insegnava alla bimba come, il più delle volte, gli adulti non siano nemmeno più capaci di vedere e gioire di quello che hanno davanti agli occhi.
Moon Shine cresceva, intanto, cresceva tanto da frequentare la Scuola Primaria, mentre nonno Ying continuava ad occuparsi del giardino. Adesso la bambina era grande, adesso era lei che interrogava il nonno e che chiedeva insistente il prosieguo delle storie iniziate. Ying, il nonno, si meravigliava da solo che quelle favole da bambini potessero aver fatto una presa così grande sulla mente della piccola, ma, paziente, continuava ad assecondala ed a scuotere sorridendo la testa, quando la sorprendeva con ancora in braccio una bambola, intenta a ripetere la stessa storia che aveva appena sentito.
Dopo qualche anno, Moon Shine, quando stava sbocciando in tutto il suo fulgore di bellezza giovanile, approdò alla Hight School, dove fu accolta da un milione di complimenti e da una moltitudine di sguardi d’ammirazione.
A quel tempo Nonno Ying, era già scomparso. Già da qualche anno aveva smesso di lavorare e s’era avanzato solo un giardino da accudire: solo quello di Moon Shine, appunto. Solo in quello ci andava ancora ed era per incontrare Moon che ci andava. Era fin la che, due volte a settimana, si trascinava ancora sempre più stanco, ma sempre più risoluto ad insegnare ancora le ultime cose sulla luna: di come, stando vicina alla medaglia d’argento di cui le aveva fatto dono, allora potesse toccarla, potesse accarezzarla con gli occhi e con le mani, di come potesse raggiungerla montando il suo cavallo alato.
Quando morì, per Moon Shine fu una perdita grave. Era la prima perdita, era il primo dolore che le riservava la vita, e di quel Nonno così tanto amabile, non le restò che una medaglia d’argento ed un’infinità di storie da conservare nel cuore.
Ma era in un’altra età, oramai, era nell’età dei primi baci, nell’età dei primi amori, ed era anche in quel tempo in cui iniziavano i primi peccatucci.
Cose piccole, cose minime, ma cose di cui sembrava si discutesse tanto da averne pieni i sensi e gli interessi. Ma per Moon Shine, no. Per lei non fu del tutto così. Lei sembrava non accontentarsi di niente; lei sembrava che stesse aspettando dell’altro.
I primi ragazzi non la interessarono quel gran che: qualche bacio rubato, qualche piccola esperienza che le diede i primi tremiti, qualche delusione da passare in sordina. Nemmeno il frequentare gli adulti delle classi superiori, sembrava capace di scuoterla da quello che, agli occhi degli altri, era frainteso come una specie di torpore, una specie di disinteresse alle cose dell’amore e del sesso. E c’era di che dispiacersene! Oh, se c’era da dispiacersene. Una ragazzina così bella, una promessa di quasi donna così affascinante, ma che non c’era modo da coinvolgerla o trascinarla in qualunque cosa di men che lecita.
Nessuno ne capiva il perché. Anche la madre, che da un lato se ne compiaceva ma dall’altro se ne stupiva, anche lei non capiva quelle continue scuse o quei ripetuti rifiuti. Non capiva nemmeno le pressioni necessarie per spingerla a partecipare alle feste o ai balli organizzati dai ragazzi. Solo Moon Shine sapeva. Solo lei… solo lei che non aveva mai smesso di parlare alla luna e di aspettarla davvero, solo lei sapeva. Sapeva ed aspettava. Tutte le notti si affacciava alla finestra con mano alla medaglia di Nonno Ying e, tutte le notti, maneggiandola e strofinandola, riusciva davvero a sentirsi vicina all’astro, sapeva davvero sentirla viva e vicina, ma non la sentiva ancora parlare, così come l’aveva istruita il nonno. Non sapeva ancora farlo del tutto fino a quella notte, fino a quella notte in cui sentì bussare ai vetri della finestra.
Era una notte d’Agosto. Era una di quelle notti di luna piena e d’aria ferma, una di quelle notti che, sullo sfondo blu cupo del cielo notturno, non c’era niente, ma proprio niente all’infuori di quella gran luna lucente. Una luna che guardava dall’alto e che, orgogliosa e prodiga, spandeva i suoi raggi sulle cose del mondo illuminandole di luce argentea, metallica, un pochino cruda, forse, ma intensamente calda ed avvolgente; una luna così splendente, come non era dato spesso di poterla vedere.
Allora la Luna fece ancora di più: illuminò con quanto più poteva la stanza di Moon Shine, e bussò ai vetri della sua finestra.
La bambina si svegliò con quel chiarore, si svegliò ma, da principio, non si rese conto di quella luce così intensa e rimase nel torpore del dormiveglia, con i sensi che piano piano si riprendevano alla vita. Si risvegliavano. Sempre esistiti, ma celati dall’infanzia; sempre esistiti, ma negati dalla pubertà e, sempre esistiti ma legati e vietati dalle pastoie delle convenzioni: si risvegliavano.
Si alzò dal letto sonnolenta e rispose a quel richiamo.
«Aprimi, sono la Luna.» si sentì dire di là dai vetri.
«Come mai sei qui? Non ti avevo cercata!» si giustificava lei, stropicciandosi gli occhi.
«Lo so, questa sera non lo hai fatto.» sembrava l’altra redarguirla.
«E allora perché sei venuta?» ancora la domanda esitante.
«Perché è l’ora. Sono venuta perché è arrivato il tempo.» rispose un poco seria, come se nel dire cose ovvie si annoiasse. La bambina capì; in quell’attimo la bambina capì. Capì la Luna, capì la vita e capì anche se stessa. Spalancò la finestra e rispose contenta:
«Entra, ti aspettavo. Era da così tanto tempo che ti aspettavo.» e col timore riverente di quel che l’attendeva, si spogliò tutta e si distese sul letto.
«Lo sapevo, » rispose rassicurante la Luna « lo sapevo ma non era l’ora. Adesso lo è, adesso lo è, e sono venuta a prenderti.»
La stanza era già illuminata, ma quando la Luna entrò, quella luce così bianca, così neutra, allora si fece calda e scintillante. La Luna invase tutto, esplorò per ogni angolo, si insinuò per ogni dove come alla ricerca affannosa di quel ch’era venuta  a cercare e, quando si avvicinò al letto, allora la trovò.
La trovò timorosa, un poco tremante, un poco indecisa. La trovò pronta e curiosa, ma con tutte le mancanze dell’inesperienza.
Allora la Luna si fece paziente. Cominciò a sfiorarla coi raggi scintillanti, a stuzzicarla cospargendola d’argento, a tentarla con sogni lucenti.
E allora l’avvolse, e allora l’abbracciò, e allora le si spalmò addosso e la fece sua.
La bambina si sentì invasa da quella luce; si sentì frastornata da quelle tentazioni che la conducevano al di qua ed al di là del sogno; si sentì tutta presa da quelle emozioni così nuove, ma così per tanto tempo attese. Fu solo per inutili mosse d’istinto che si accarezzò i seni ancora acerbi; fu solo per lo stesso istinto che scese le mani ad accarezzarsi, a graffiarsi; ma era la Luna. Era la Luna che faceva tutto. E quando la Luna la vide stirarsi il corpo e le membra in uno spasmo di felice morte; quando la vide boccheggiante, alla ricerca vana del respiro che l’abbandonava; quando la vide tremare e poi esplodere, allora e solo allora, la Luna si ritrasse, lasciandola al suo meritato oblio.
I raggi lasciarono la presa, l’argento ritornò smunto e si attenuò il chiarore. Tutto il lucente se ne fuggiva per quella stessa finestra dalla quale era appena entrato. La luna se n’era andata dalla stanza di Moon Shine. La luna era tornata lassù, al posto suo, lasciando quaggiù una bambina che s’era fatta donna, a riprendersi il sonno che, forse, non s’era mai interrotto.



FINE




enrico  portalupi