La Spinetta di Novara

(Terzo premio concorso letterario Banca Popolare di Novara)






Quel Lunedì del 1898, a Novara, c’era stato del gran fermento.

Ci stava ripensando, L’Ortensio, tra uno scossone e l’altro del calesse, i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani a regger le redini lasciate lunghe alla cavallina che, tra una pozzanghera e qualche profondo segno lasciato dal passaggio d’altre ruote, tra un pezzo di strada ed una curva, passo dopo passo, lo stava riportando a casa.

Ancora frastornato, ancora incredulo, lasciava che il cavallo percorresse da solo la strada che conosceva bene; permettendo a lui di potersi estraniare nei suoi pensieri che, dopo il frastuono del mattino, gli stavano ora affollando la testa, facendolo persino sentire in una specie di strana euforia, in una specie di concentrazione diversa.

Dopo la costruzione del Canale Cavour e del Quintino Sella e completata l’irreggimentazione delle acque, la campagna di Novara si stava trasformando. Durante un arco compreso tra Nord-Ovest e Sud-Est, paludi e ristagni una per una sparivano e, dopo lo scavo di una tale ragnatela di rogge, cavi, cavetti e canali, anche le sorgenti spontanee erano tutte imbrigliate e si sarebbe persino potuto dar di mano a quelle zone di gerbidi impossibili che, per anni ed anni non avevano permesso di far altro, se non di stare a guardarli.

Il nuovo governo sembrava proprio che, di là dalle belle parole, che di sentirle ci s’era già fatto il callo, volesse finalmente risolvere dei problemi che si trascinavano da sempre. Pareva proprio volesse risolverli al punto che, per la prima volta a memoria d’uomo, c’erano persino in ballo dei fondi in moneta sonante e l’assegnazione di terreni che la sistemazione del territorio aveva reso agibili. Il solo problema era come fare per ottenerli.

«No, lasciamo perdere, sarà persino inutile provarci,» diceva l’Ortensio Gaudenzi alla moglie, con il tono amaro di chi si sente l’animo già rassegnato «che tanto poi si sa già come andrà a finire,» continuava con un’alzata di spalle, prendendo la cote dal fodero agganciato dietro la schiena e mettendosi a ripassare il filo della ranza «finirà come il solito,» diceva «e come il solito finirà per piovere sul bagnato.» Parlava a tratti, con le labbra un poco strette e gli occhi fissi e concentrati sulla cote che correva avanti e indietro a ravvivare il filo tagliente del ferro, dando alle parole stesse un sottofondo musicale tra il clangore e lo strofinio assordante.

«Ma và che testa!» si spazientiva la Lena «Ma cosa ti costa a te, ci son solo da scrivere delle carte!» insisteva con quella sua aria di stizza, quella sua aria sempre un poco esasperata.

«E chi è che le scrive ’ste carte, se tra mi e ti, i suma gnanca bón da fà na O cunt al bicer?» cercava l’Ortensio di tagliar corto, rimettendosi la cote nel fodero e ripigliando a tagliar prato. La Lena sembrava adesso titubante, timorosa di continuare, aveva le parole in bocca ma era come se stentasse un poco a tirarle fuori.

«Il prete, le scrive il prete.» riuscì finalmente a dire.

L’Ortensio era come non l’avesse sentita. Lui continuava a tagliar prato. Lui continuava quel suo lavoro dondolante, quel lavoro di mezzo passo dopo mezzo passo, accompagnato dall’ampia rotazione del busto e delle braccia che reggevano l’attrezzo. Quel lavoro che durava da ore e che, tra il rumor come di sibilo e di carta stracciata, vedeva ampie porzioni d’erba che, allineandosi alla sua sinistra, formavano l’andana.

La Maddalena Spina, la moglie dell’Ortensio, lei era stata istruita per bene dal prete: «Corri a casa e cerca di convincere tuo marito. Cerca di convincerlo per bene, quel miscredente,» aveva spiegato l’uomo di chiesa «cerca di persuaderlo che, se Dio vuole, questa volta potrebbe essere la vostra fortuna.» Proprio questo la Lena avrebbe dovuto fare: cercare di convincere un marito che, allineato al disfacimento degli stati Vaticani ed alla presa di Porta Pia, appena sentiva odore di confessionale diventava sordo ed intrattabile.

Ma lei niente, lei era subito corsa a cercarlo nei prati ed era come se, addirittura, gli stesse correndo dietro; anche lei a mezzo passo dopo mezzo passo, stando dietro, ben attenta a non finire coi piedi entro la traiettoria del ferro, per spiegare con quanto di calma potesse permettersi, quel che il prete le aveva detto. Spiegava che, per grazia del destino, loro possedevano già un fazzoletto di terra, e che questa terra era proprio al centro della zona demaniale che, proprio perché del demanio, sarebbe andata in lottizzazione gratuita.

«Óh bella, e come farebbero a regalarmi una cosa che è già mia?» faceva del sarcasmo l’Ortensio.

«Ma no, testone,» continuava a dar sotto la Lena «non parlo di questa terra che è già nostra, parlo dell’altra, parlo di tutta quell’altra che ci sta attorno.» Ma l’Ortensio non la stava sentendo, l’Ortensio non voleva nemmeno sentirla. L’Ortensio si ricordava di quel che raccontava il nonno nei suoi ultimi anni di vita. Si ricordava d’aver già sentito che anche Napoleone aveva fatto qualcosa del genere, quando aveva espropriato la chiesa di tutte le proprietà agricole che non servissero direttamente all’esercizio del mestiere di prete. Le aveva espropriate da una parte per regalarle al popolo dall’altra. Si ricordava d’aver sentito di quanto tutti ne fossero contenti, allora, salvo poi vedere che quelle Pievi, Abazie e Conventi Agresti, erano tutte finite in regalo a gente nobile di corte, oppure a gente già ricca sfondata. Se quello era il popolo che veniva preso in considerazione, pensava l’Ortensio, allora non valeva la pena di affannarsi tanto come stava facendo la Lena.

«Ma no, testa quadra d’un famèj!» s’affannava l’altra «Anche se me l’ha detto il prete, qui la chiesa non c’entra niente! È solo che di queste cose lui se ne intende, lui è informato, e dice che ci sono ancora pochi giorni di tempo per fare la domanda; cosa ti costa a te? Ha detto che fa tutto lui!»

Ecco, era proprio questo che dava fastidio all’Ortensio: che fosse un prete ad occuparsi delle cose di un liberale come lui si sentiva. Per la Lena era diverso: la Lena era già sempre pronta di suo a correre in chiesa e bersi a due mani tutto quello che le fosse stato propinato. D’altra parte si sapeva già: le donne! Lui no, lui quel fazzoletto di terra sapeva bene che non lo aveva avuto per opera dello Spirito Santo; lui lo aveva avuto da suo padre, e quello, lo aveva avuto da suo padre ancora.

Il Cesare Gaudenzi, il vecchio, il patriarca della famiglia, passata la buriana liberale dei primi dell’800, era riuscito a comprarselo da un certo Marchese che, nonostante il titolo, non aveva ancora imparato che i soldi non crescono sugli alberi. Possedeva anche quella proprietà, il marchese, assieme alle tante altre che, tra gioco, cavalli e donne, se le stava vedendo scappare dalle mani una per volta; e, siccome il bisogno è sempre bisogno, s’era risolto di venderla per quattro soldi. Tanto, più di quattro il Cesare non li aveva e poi, cosa sarebbe mai potuto valere l’unico pezzetto di terra agibile nel mezzo di gerbidi e paludi d’acqua marcia, che a misurarlo per bene saranno state sì e no un’ottantina di pertiche.

La costruzione che si trovava al centro di quelle, poi, non era nemmeno una vera casa. C’erano i terreni, quelli sì, ma per il resto, la casa era proprio solo quattro muri e un tetto che, più che altro, nei lontani periodi in cui veniva ancora usata, serviva quasi solo come riparo provvisorio e custodia degli attrezzi.

Poi c’era stato il lavoro, il lavoro e soltanto il lavoro.

Alla morte del vecchio Cesare, nel 1873, quei quattro muri ed i terreni che stavano attorno non eran più tanto male, ed il figlio che n’era subentrato, contribuì mica poco a sistemarli, tanto che, tra acquisizioni e dissodamenti, quelle ottanta pertiche eran già diventate poco più del doppio; e le quindici mucche nella stalla poi, quelle sì, quelle sì che si poteva ben dire che rappresentassero l’orgoglio della famiglia! Poi, nel 1887, per esser finito sotto un carro in manovra era morto anche lui, ed allora era toccata all’Ortensio. Lui non s’era sposato presto, lui non aveva mai avuto nemmeno il tempo per pensarci, ma alla mancanza del padre s’accorse quasi subito che non avrebbe nemmeno potuto pensare di continuare da solo, dato che, anche per tentare di fare solamente l’indispensabile, non s’avanzava nemmeno il tempo per dormire.

S’era sposato con la Lena all’età di quarantun anni suonati, nel 1895, e la sua posizione di padrone di qualcosa, non aveva di sicuro pesato in quell’affare; quella cascinetta, anche se messa a posto per benino ed ampliata per quanto possibile, bastava guardarla per capire che invece di un pozzo di ricchezza, doveva essere solo un pozzo di lavoro e di fatica.

Se n’accorse subito la Lena, però, ma giacché gli Spina erano una famiglia di terra e che in quanto a fame e lavoro ci avevano sempre nuotato dentro, per lei era normale che fosse così; lei s’era subito rimboccate le maniche e, da sole a sole, come s’usava allora dire per trovare un eufemismo al più brutale dall’alba al tramonto, si rimboccò le maniche e cominciò a lavorare come nemmeno un cavallo da tiro s’era mai visto fare.

Tre anni dopo, nel 1898 appunto, quando i progetti irrigui avevano cominciato a dare i primi frutti e le marcite ad aumentare la produzione d’erba, le mucche eran diventate venticinque; che tra quel che producevano loro e qualche carro di fieno che non si poteva fare a meno di comprare, riuscivano bene a mantenerle tutte. Si dividevan lo spazio con quattro cavalli da tiro pesante, quattro roani grandi e grossi che parevan montagne, ed un altro da tiro leggero: una cavallina senza pretese, ma che, mansueta e buona come il pane, si faceva volentieri attaccare al calesse. Era una bestiolina morella di quattro anni, balzana da tre e con una gran macchia bianca sulla fronte; una cavallina che, finché era scossa sembrava tutto pepe, ma una volta attaccata, allora si metteva docile a svolgere il compito suo e permetteva gli spostamenti necessari.

Non furono solo questi gli arricchimenti di quei tre anni, ma anche la Lena aveva contribuito di suo, che tra un lavoro ed un altro, da sole e sole, ma al contrario, aveva trovato il tempo di dare al marito il figlio che desiderava.

Oh Dio, veramente, giacché il desiderarlo, l’Ortensio non sapeva bene nemmeno lui; forse era stata più la Lena a volerlo, forse era stata più lei che, a venticinque anni e seguendo la natura, cominciava a sentire improrogabile il desiderio di maternità. Lui, l’Ortensio, lui stava imparando a seguire l’istinto di sua moglie. La capiva, lui, e capiva che un figlio ci voleva, se no cosa si lavorava a fare; ma qui stava il punto: venendo a mancare la Lena, che d’ora in avanti sarebbe stata occupata col figlio, sarebbero mancate le braccia che lo avevano sempre aiutato. Per forza quindi, bisognava assumere qualcuno in più del vecchio Urbano che già c’era e la mezza dozzina d’avventizi che a turno venivano per dare una mano. Servivano almeno due braccia in più, e questo era il meno, quel che era più grave era che quelle braccia, al Sabato, dovevano essere pagate.

Fu un travaglio che lo tenne assorto per parecchio tempo. Fu un dibattito interno che lo portò a ragionare sul contrapporsi dei desideri e dei bisogni, ma fu anche un’introspezione che, alla fine, si risolse come tutte le altre: come il solito la Lena aveva ragione. Così come aveva ragione adesso, anche se al momento lui ancora non lo sapeva, di insistere a rincorrerlo, a rintuzzarlo in quell’idea, in cui lui, col carattere orgoglioso che si trovava, lui non ci credeva per niente.

«Lo capisci o no, che è un’occasione che ci capita; non fare il testone come tuo solito!»

«Io alle occasioni non ci credo.» rispondeva lui tra i denti stretti, tra lo stridor del ferro sull’erba ed il fiato che, dopo qualche ora di quel lavoro continuo, cominciava a trasformarsi in affanno «Chi è che t’ha raccontato questa storia, il prete? Ma và là, che da quelli né vengon fuori solo delle balle!» insisteva a scherzarci «E poi, scusa, nèh, ma è mai capitato che t’abbiano  regalato qualcosa, a te?»

«Non c’entra! Questo non c’entra niente!» continuava la Lena ad insistere «Lo vuoi capire o no, che questo non è un regalo! È una storia di legge, questa!» Ma l’Ortensio continuava a scuotere la testa accompagnandosi col sorriso della compassione. Che le leggi, pensava, quelle se le aggiustano sempre come conviene loro. Non ci credeva, lui, alle buone grazie; se no, tanto valeva che si fosse messo a credere pure ai miracoli!

Ma la Lena insisteva, e insisteva e, in quell’insistere, ci s’applicava col fervore d’una causa da difendere. Lo pressò e gli diede addosso per tutto il resto del giorno, e la notte, dopo averlo tentato, favorito ed assecondato a ripassarsi tutto il repertorio delle prime notti di letto assieme, si abbandonò contenta al sonno, soddisfatta, e con sulle labbra il sorriso pacato della vittoria.

Alle sei del mattino dopo, quando i primi raggi d’un sole ancora indeciso stentavano ad asciugare l’umidità delle notti di Settembre, l’Ortensio stava già attaccando la cavallina al calesse. Ci vollero quattro bestemmie di quelle pesanti, che quella bestia fin che non si sentiva tra le stanghe era un problema trattenerla, ma l’Ortensio, alla fine, aggiustandosi il nodo al fazzoletto da collo, faceva accomodare la moglie. Battuto nell’orgoglio, ma ancora incredulo su quel che andavano cercando, dava il “Jüüü!Và là!” al cavallo schioccando le redini.

Per tutta la strada la Lena si dimostrò nervosa come un gatto in calore, discutendo e quasi litigando per ogni cosa le passasse per la mente. Ebbe a ridire sulla giacca dell’Ortensio; che ce n’era un’altra nuova nell’armadio, ma lui, no, lui da testone qual’era, lui s’ostinava ad indossare sempre quella vecchia giacca di fustagno che, come diceva lei: sembrava la giacca d’un “ciapa-puli”. Poi reclamò per i finimenti della cavallina; che l’Urbano, chissà cosa mai avesse avuto da fare per tutto il giorno, se li mandava in giro con i finimenti in quello stato. Alla fine… alla fine, forse perché non aveva altri argomenti, ma riuscì a prendersela pure col fazzoletto che il marito s’era annodato al collo.

«Proprio quello dovevi metterti? Non ce n’era un altro da scegliere?» biascicava con quella sua aria da rimprovero, sempre con la schiena che le s’irrigidiva e con gli occhi che sembrava volessero guardare da un’altra parte.

«Cosa c’entra il fazzoletto, adesso!» cominciava ad esasperarsi l’Ortensio «Una volta ch’è pulito e stirato, uno vale un altro, no?»

«No che non è lo stesso!» dava lei di rimando «E lo sai anche tu che è così. Questo qua è nero. Questo qua è un fazzoletto da anarchico, e se te lo metti per andare davanti al prete è come se lo vai a sfidare in casa sua. Ti pare il caso, èh, ti sembra giusto, dopo che ci stiamo andando per chiedere un favore?» L’Ortensio non rispondeva. Lui portava il cavallo e non diceva una parola. D’altra parte lo sapeva già, lo sapeva già che quando la Lena era nervosa a quel modo era inutile discuterci assieme. Lei, invece, lei nervosa lo era per davvero. Stava andando alla sua parrocchia, la parrocchia di San Martino; e questa volta non ci andava da sola, ci stava finalmente andando con suo marito. Ci stava andando come lo presentasse per la prima volta nel suo ambiente personale, come lo presentasse al mondo, come non riuscisse a contenere l’orgoglio di accompagnarsi al suo uomo.

Il parroco, l’Ortensio lo aveva visto una volta sola, il giorno del matrimonio, che per portarlo in chiesa quasi quasi s’era dovuto trascinarcelo proprio come si fa col maiale il giorno che sì fan salami; anzi, no! Veramente… veramente il parroco e suo marito s’eran già visti un’altra volta, un po' di mesi dopo le nozze: per la Pasqua, quando il prete era venuto per benedire casa. Ma quel senza Dio dell’Ortensio aveva fatto accomodare il pover’uomo, gli aveva offerto un bicchiere di vino, dieci lire per i poveri della parrocchia, ma in quanto alla benedizione… in quanto a quella aveva avuto la faccia tosta di dire che, data l’umidità che c’era già in giro, benedetta o meno che fosse, ma di spander altra acqua sui muri non era proprio il caso. La Lena s’era sentita sprofondare per la vergogna, ma il prete, no. Quell’uomo, che d’intelligenza e comprensione doveva averne da vendere, aveva bevuto il suo bicchiere, poi n’aveva chiesto un altro, e così, come fanno gli amici all’osteria, s’era messo tranquillamente a discutere sui problemi dei campi e della stalla.

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«Lööö!» ordinò l’Ortensio al cavallo di fermarsi, una volta arrivati sullo spiazzo. E poi, con impercettibili tensioni di redini: «Da ré, da ré.» lo incitava a retrocedere, fino ad arrivare a tiro d’uno degli anelli infissi al muro. Legato il cavallo all’anello e datesi delle gran manate sui pantaloni, per togliere quel po' di polvere raccolta per strada, stette fermo a guardare la moglie che, mantenendo il broncio della compostezza, con piccole mossettine e colpetti di mano, lisciava, appianava, aggiustava qualche piccolo stropiccio che s’era creato, arieggiava un pizzo, risistemava un merletto.

«Dobbiamo incontrare Don Claudio.» disse la donna sottovoce, una volta in chiesa, attraverso il sorriso timido, con fare dimesso e con le mani raccolte al seno, a chi le s’era fatto incontro.

«Don Claudio ha finito adesso di dire la prima messa,» le rispondeva quel prete, anche lui con un filo di voce, anche lui con le mani raccolte al petto, infilate nelle maniche, ma con il sorriso più sicuro, con l’espressione decisa del benvenuto «adesso è in sacrestia che sta facendo colazione; venite, vi accompagno.» I due si avviarono con l’Ortensio al seguito, che s’attardava, che si guardava in giro curioso, e la Lena che, girandosi ripetutamente indietro, lo fulminava con gli occhi severi della deplorazione; che non sta bene comportarsi così, che non è da educati il camminare a quel modo in una chiesa, come si fosse in una stalla.

«Ciao Lena,» la salutò il Don Claudio quando se la trovò davanti, facendole il gesto d’invitarla a sedersi e dividere il caffè «allora, glie l’hai fatta con tuo marito?» poi subito dopo «Tö, tël chì ël Giüdé!» riservava all’Ortensio, con quella sua parlata un po’ Lombarda, un po’ Bergamasca che, sentita con le orecchie della gente di qui, regalava sempre una musicalità simpatica. «Doooraa!» chiamava la perpetua «Dora, porta del vino per il nostro Ortensio,» diceva alla vecchia «ma sta ’tenta, nèh, non portare quello benedetto, che a lui ci fa male.» dava l’ordine nascondendo una punta di sorriso perverso «Ahh…» continuava ad infierire, a torcere il coltello nella piaga «non portare nemmeno il Vin Santo, nèh, che anche quello c’ha un nome sospetto; porta invece la margherita che compri dalla Clelia. Quello va bene, è un vino anonimo, quello, e al nostro Ortensio non lo farà dar di stomaco.»

L’Ortensio s’era seduto in silenzio e, sempre in silenzio, si prendeva le stoccate del prete con l’aggiunta del carico d’occhiate fiammeggianti della Lena che, felicemente subito alleata al suo parroco, sembrava una volta tanto ci godessero in due a metterlo sotto.

«D’altra parte,» si diceva lui «d’altra parte era giusto che fosse così, perché se era venuto nella tana del lupo, bèh, allora, una qualche morsicata alle mani doveva pur prendersela, no?» Ma non gli andava di contrattaccare, preferiva rimanere in silenzio, intanto che i due si spiegavano per bene su ogni passo ed ogni movimento che, forse, li avrebbe visti arrivare in fondo ad una corsa ad ostacoli, con traguardi che parevano impossibili.

L’Ortensio firmò delle carte che servivano per cominciare il percorso, si mise in tasca la nota delle commissioni, scritta dal Don Claudio con bella calligrafia svolazzante, poi, al momento di ringraziare e salutarsi, i due uomini rimasero immobili, in piedi uno di fronte all’altro a guardarsi negli occhi, senza trovare le parole per dirsi qualcosa.

Fu il Don Claudio a rompere l’imbarazzo:

«Farai tutto quel che va fatto?» chiese il prete quasi inutilmente, proprio perché non sapeva che altro dire.

«Lo farò, lo farò perché a lei piace così.» rispondeva l’altro, indicando la moglie con un cenno della testa. Poi si girò e se n’andò, con la Lena dietro. Se n’andò in orgoglioso silenzio così com’era venuto; se n’andò con l’atteggiamento più contenuto, più prudente, con il prete che stava a guardarlo andarsene.

«Che uomo,» pensava il Don Claudio «che orgoglioso uomo libero; che aiuto per la chiesa potrebbe essere, se non avesse quella testa matta! Ma cosa vogliamo farci,» ragionava da solo, mentre lentamente tornava in sacrestia «ognuno ha la sua croce da portare, ed in quanto a croci…» continuava sedendosi sulla stessa sedia di poco prima, puntando i gomiti sul tavolo e raccogliendosi la testa tra le mani «in quanto a croci bisogna che stia attento nel dar giudizi, perché con quella che mi ritrovo sulla mia schiena, invece che ai giudizi sarà meglio che pensi alle penitenze.» Questo, almeno, era stato il consiglio del vescovo, dopo che s’eran visti l’ultima volta.

Il Don Claudio, infatti, non era propriamente in forza alla chiesa di San Martino; era solo… come dire… in prestito. Ufficialmente era impegnato in una specie di trasferta provvisoria per dare una mano al parroco titolare, troppo vecchio e malato per occuparsi oltre dei suoi doveri di parrocchia.

Una trasferta provvisoria che, durando da quasi dieci anni, aveva ormai preso il sapore del definitivo; una collaborazione che aveva assunto l’aspetto della sostituzione, anche perché, quella sistemazione che sembrava provvisoria, era in realtà solo un escamotage, un sistema per confondere le acque, un rifugio ed un’ultima possibilità che s’era voluta dare ad un prete caduto in disgrazia.

Tutto quello che stava facendo adesso, tutto l’impegno, era una dimostrazione, un riscatto, un’ulteriore prova che gli era stata accordata; prove e dimostrazioni che lui stesso aveva richiesto, perché anche se la sua non era stata una vera vocazione, ma ormai, negli anni, a quel tipo di vita ci si era abituato ed altro non avrebbe saputo fare.

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Il Don Claudio, che rispondeva da laico al nome di Giovannei Orsi, era nato nel 1838 in una valle della Bergamasca e, seguendo la moda del tempo, dove in famiglia le bocche da sfamare eran sempre troppe e non appena possibile si cercava di liberarsene, capitata l’occasione, si fu ben felici di mandarlo in seminario.

«Ma che storie è che mi fai?» si spazientiva suo padre, nei momenti in cui lo sentiva recalcitrante «Ma dì un po’: lo hai mai visto un prete magro, tu? Ne hai mai visto uno patito?» cercava di convincerlo, usando gli argomenti più facilmente comprensibili «E allora vorrà dire che a fare il prete è un mestiere dove si mangia tutti i giorni, no?»

Vocazione falsa, quindi, vocazione comprata dal bisogno e dall’istinto di sopravvivenza. Vocazione talmente scarsa che vide il ragazzo prendere i voti esageratamente tardi, talmente tardi che quasi s’eran perse le speranze. Reprimendo la sua natura, violentando i suoi istinti e zittendone i desideri, ce la fece a trentacinque anni, ed anche se all’inizio sembrava che la chiesa si fosse arricchita di un nuovo adepto, bastarono pochi anni perché quell’acquisizione si rivelasse solo un triste disastro, fino al punto da diventare un imbarazzo.

«Mandalo da me.» aveva risposto il vescovo di Novara a quel suo collega, dopo averne letto la lettera che, mascherando la richiesta di consigli, era in realtà una richiesta d’aiuto «Mandalo da me, sì, mandamelo pure che ho giusto bisogno d’un sostituto.» ed appena s’eran visti, non appena il Don Claudio si presentò per baciare l’anello, tra i due uomini non servirono tante parole per capirsi; era quel che vedeva il vescovo negli occhi dell’altro che lo convinse ad accordare fiducia. Eran momenti, quelli, in cui la Chiesa aveva troppo bisogno di ministri intelligenti, ed anche se qualcuno, poi, non fosse riuscito in pieno ad estraniarsi dalla vita da laico, era già sufficiente che, nel suo muoversi, non sollevasse troppa polvere. Che tra i moti Napoleonici appena passati, tra questo nuovo governo che Li aveva relegati in un angolo, e tra le idee liberali che stavan venendo di moda, di polvere in giro ce n’era di già fin troppa.

«Questo Don Claudio, in fondo,» se la ragionava il Sant’uomo, dopo congedato il nuovo venuto verso i compiti che l’attendevano «è solo uno che non ha ancora ben capito da che parte stare. Certo che però…» continuava con un certo sorriso tra il malizioso ed il compiaciuto, che si sbrigò subito a cancellare reprimendo anche un istintivo moto di segno della croce «Certo che però ha quasi cinquant’anni, e se non l’ha ancora capita fino adesso… Mah, sarà quel che Dio vorrà!» concludeva come suo solito, i tanti dubbi che i nuovi tempi non gli lesinavano «Lo terrò d’occhio,» si ripromise «lo metterò in una parrocchia vicina e lo terrò d’occhio; che poi, insomma, sarà ben solo questione di qualche tempo, ma anche lui, Santa Madonna, la sua età comincerà pure ad averla e finirà per smetterla da solo una buona volta, no?!»

Non ci volle molto però, al monsignore, per iniziare ad apprezzarlo, anzi, quasi quasi ci si divertiva. Era piacevole lo stare a guardarne i risultati, era curioso come, in tante occasioni, la visione più realistica e pratica del Don Claudio riuscisse a penetrare certe anime refrattarie, a forzare certi ambienti, ad essere presente con la parola della chiesa proprio là dove, fino a ieri, era echeggiato solo il silenzio. Lui, il vescovo, lui per parte sua si limitava a sorvegliare bonariamente e, di tanto in tanto, ad elargire qualche informazione che la sua posizione lo portava a conoscere in anticipo; sempre sottilmente, sempre come se, invece di notizie interessanti, fossero solo degli spunti di conversazione durante i loro periodici incontri.

«Ha visto qua, Don Claudio?» richiamava la sua attenzione mesi prima, sul foglio del Corriere di Novara, già da qualche anno in vendita nelle edicole «Pare che questo nostro governo se ne stia inventando un’altra. Legga, legga qua cosa dice il giornale.» sorrideva, facendo scivolare il foglio sul piano della scrivania «Non solo hanno voluto regolare le acque di tutta la zona sostituendosi ai disegni di Dio, ma adesso pare che vogliono pure distribuire i terreni; quelli che si sono salvati dalle paludi, quelli che son diventati irrigui. Questi sono dei sobillatori…» continuava polemico «…sobillatori, miscredenti, e pure ladri. Prima hanno rubato tutto a Noi, ed adesso pretendono di regalare a pochi, quel che invece appartiene a tutti; e chissà in che razza di modo lo faranno, poi! Si spartiranno tutto tra di loro e si dimenticheranno di sicuro che esistono già delle leggi di prelazione. Sono proprio ciechi, nèh! Vogliono fare e disfare senza essere in grazia di Dio e non sapranno neanche prevedere certe leggi… certi accorgimenti… Sì, perché vede… ci sarebbero certe pieghe, certi risvolti… sì insomma… certe pieghe di questa legge potrebbero consentire di tutto, sa…?» insinuava lasciando il discorso in sospeso «Se lo prenda, Don Claudio,» regalava il giornale al subalterno con un ampio gesto del braccio «se lo prenda e se lo legga, si divertirà anche lei e magari ci farà quattro risate.»

Ma sopra quei due fogli c’era poco da riderci. Il Don Claudio non ci mise niente per capire le allusioni del superiore. Allusioni, sorrisi ambigui, insinuazioni maliziose; tutto un repertorio che, come altre volte aveva già sperimentato, proponevano e negavano, insinuavano e smentivano, aprivano squarci di luce e subito li richiudevano. Era quell’uomo ad essere così: metteva le cose sotto gli occhi, e poi lasciava agli altri il compito di capirle. Ma lui, il Don Claudio, lui le capiva al volo, e dopo letto quel che doveva e sentito il notaio Spinetti, suo buon parrocchiano, aveva già pronto il piano per la Lena che, forse, era l’unica della parrocchia da poterne essere coinvolta.

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L’Ortensio era come non ci credesse ancora. Reggeva le redini con la faccia imbambolata e gli occhi persi, ancora con lo sguardo fisso, ancora con l’espressione attonita, ancora con la coscienza incredula. Tremilacinquecento pertiche n’aveva avuto! Si poteva credere ad una cosa così? Si poteva crederci, che c’eran volute tre generazioni di lavoro e di sputar lacrime e sangue per metterne assieme quasi duecento, e poi, di colpo, arriva uno e te ne regala tremila cinquecento? Perché poi, alla fine, era proprio così che era andata: una mezza giornata d’ozio e d’attesa in città, a Novara, in Piazza Castello; una mezza giornata a bighellonare tra un’osteria ed un’altra, a chiacchierare con gente che conosceva sì e no di vista. Tutti nell’attesa che dal balcone del Palazzo del Mercato si affacciasse quel tipo mingherlino e con la faccia da topo che, dando mano alle sue belle carte, annunciasse i nomi di quelli che sarebbero dovuti entrare dentro al palazzo e prendersi gli atti di proprietà ed i contributi promessi.

Il movimento, il trambusto, tutto il gran vociare, insomma, era proprio iniziato allora; fino al momento prima eran tutti tranquilli, tutti fintamente indifferenti ai risultati degli eventi, ma non appena si seppero i risultati delle assegnazioni, e messi in relazione i nomi sentiti con le cascine cui erano collegati, allora era stato come se stesse per scoppiare un temporale con il fieno ancora steso sull’aia.

«Certo che però avevano anche ragione a reclamare!» si convinceva adesso, frugandosi nel taschino del panciotto per cercare il mozzicone del Toscano e, non trovandolo, s’accontentava di ficcarsi in bocca un fiammifero «Avevan ragione sì, certo che avevan ragione!» considerava, al ricordo che cascine con già duemila pertiche se n’eran viste assegnare altre mille; al sentir nomi di gente mai vista ne conosciuta, che s’eran presi appezzamenti che erano in pratica delle tenute «Pazienza per me che tutti mi conoscono, e se ci avranno infilato il mio nome sarà stato di sicuro per dimostrare un’imparzialità che invece non c’era, ma per gli altri… ed i soldi poi? Sì, perché c’erano anche quelli, nèh!» continuava scotendo la testa nel disappunto. Lui non aveva ragione di reclamare, perché aveva in tasca una carta di credito con sopra un numero che non sapeva neanche leggere. Davvero, così tanti soldi non li aveva mai visti, ma quei bei tipi dai nomi sconosciuti, però, con tanta gente che n’avrebbe avuto un gran bisogno, quelli s’eran portati via il meglio!

«Per forza che la gente era finita con l’arrabbiarsi! Va bene che per la maggior parte non avevan le carte in regola, ma anche così, però…» pensava con un sorriso di tenerezza, al ricordo di come la Lena si fosse invece accanita nel portare a compimento quel compito suo. Di quante infinite volte avesse fatto attaccare la cavallina per correre a Novara, perché di carte o timbri o chissà cos’altro ancora, non si capiva come mai, ma sembrava che ne mancasse sempre uno. Si ricordava dei mesi ch’era corsa avanti e indietro, dei mesi che aveva passato esplorando uffici sconosciuti e palazzi mai visti; e cos’altro dire adesso che eran giunti alla fine, che se non ci fosse stato il Don Claudio a far da guardia, a far da guida… Se non ci fosse stato lui a suggerire, ad indirizzare… chissà quante volte, com’era capitato agli altri, chissà quante volte avrebbero perso la strada di quell’avventura che, adesso se ne rendeva conto, ma era proprio solo da doversi ascrivere alla costanza ed all’amore della sua Lena.

«Ma la ripagherò, » si riprometteva «giuro che la ripagherò di tutto.» si riprometteva, sentendosi già la testa piena di progetti e di iniziative che avrebbero migliorato di un bel pezzo la loro vita. «Anche perché se lo merita,» si diceva convinto «se c’è una donna al mondo che se lo meriti, quella, è proprio la Lena!»

E dire che, almeno per lui, quello non s’era mai nemmeno potuto chiamare un matrimonio d’amore: era stata solo una sistemazione di convenienza. Il bisogno di una donna in casa, per lui, ed il bisogno d’autonomia e d’affrancamento dalla vita in famiglia, per lei.

Lei, la Lena, lei sapeva già che il matrimonio, qualunque fosse, l’avrebbe sempre relegata in una posizione di lavoro suddito; ma quel giovane, l’Ortensio, quello sembrava un bravo giovane. Prima di tutto non frequentava le osterie come fossero una seconda casa, sembrava che bevesse poco e pareva non avere quel tipo di carattere che, tanto facilmente, portava a trattar male la moglie.

D’altra parte lei doveva decidersi. Aveva ormai venticinque anni, aveva già rifiutato alcune richieste e suo padre cominciava col dare chiari segni d’insofferenza. Non poteva continuare così. Suo padre, Alfonso Spina, da mungitore qual’era, non aveva quella sola bocca cui provvedere; ne aveva altre tre: altre due figlie più la moglie. Solo femmine eran toccate a lui; che ad ogni parto era come tirare l’estrazione d’una tombola e ad ogni estrazione sempre la solita sfortuna che continuava a preoccupare, che insisteva ad accumulare nuvole nere sopra un destino che, già di suo, aveva così poco sole per cui gioire.

C’eran troppe donne in quella casa, ed anche se impiegate in campagna nelle mansioni più disparate, eran sempre sommissioni da donne che ne venivano e quelle, si sapeva già, quelle pagavano a stento il pane che una mangiava, pur senza aver pretese per il companatico.

La Lena lo aveva già capito da sola e, come fu un tantino più matura, non appena si presentò quel giovane che, così a guardarlo, sembrava promettere di non batterla più di una volta al mese, allora per lei andò benone: lo seguì e tanti saluti a casa; che dove una non è benvoluta tanto vale che ci resti. L’amore venne dopo.

Pur lavorando assieme, ed assieme, giorno dopo giorno tornare a sera ancor più stanchi delle bestie che governavano, marito e moglie impararono a conoscersi, a stimarsi, ed anche ad amarsi. L’Ortensio cominciò con l’averne pieno il cuore, ed anche se non l’avrebbe ammesso mai, anche se, come d’usanza, sosteneva sempre un tono serio, un poco arcigno, un po'… come dire… un po' sbrigativo, piano piano cominciò col farsi più possibilista, più accomodante. Magari anche più ironico e più sarcastico, nei confronti di una moglie che, sole o pioggia che fosse, la Domenica mattina attaccava la cavallina e correva in chiesa, ma quel che più comunemente si chiamava amore, giorno per giorno cominciava anche lui a sentire che gli stava scaldando il petto.

«Ma che ci vai a fare, » la scherniva lui, vedendola affannarsi per non far tardi alla messa «forse che non ti bastano gli interessi che hai qui, per andare a cercarne altri da un’altra parte?» Ma lei niente, lei non lo seguiva mai su quel tipo di discussione.

«Tu ci vai all’osteria? Tu ci vai a discutere con i tuoi amici? Ed allora lascia anche a me la libertà di andare a parlare col mio prete.» Era una discussione inutile, era una discussione che non aveva senso pratico, per questo l’Ortensio, pur provandone una specie di gelosia, pur sentendosene in qualche modo come esautorato dalla sua posizione di preminenza, preferiva sempre scuotere la testa e lasciar fare.

Aveva lasciato fare per il battesimo del figlio, pur rifiutandosi di prendervi parte. Lasciava fare per le annuali donazioni alla chiesa, che per quei quattro soldi non valeva la pena di prendersela; ed al di la di qualche presa in giro, aveva imparato anche a lasciar fare in una infinità di altre decisioni che, da quel che sembrava, la Lena non ne sbagliava una.

Fino ad arrivare a quest’ultima, ci ragionava, fino ad arrivare a quest’ultima che: töh, ma varda 'n po’ ti!! Ma varda 'n pò ti 'ndua l’è ch’is l’uma cavà da 'ndà finì! Si diceva da solo, stando bene attento ad indirizzare il cavallo sul ponte che attraversava il canale Cavour, e da lì ad imboccare l’ultimo tratto di strada che l’avrebbe portato a casa. Era sempre stato un problema, per la cavallina, passare su quel ponte. Qualche attimo di panico che, il rimbombo diverso delle ruote e degli zoccoli, causavano al cavallo di dar sempre una mezza parata ed un paio di scarti. Bisognava solo starci attenti, bastava tener bene l’appoggio sulle redini che poi, la cavallina, sentendo già l’odor di scuderia, si metteva subito tranquilla e procedeva spedita.

Ci ragionava spesso, l’Ortensio, sulle qualità inaspettate che scopriva nella sua donna, e capiva che con lei, con un valido aiuto come quello che s’era abituato ad avere, si sarebbe potuti andar lontano. Da lì in poi, con dentro la tasca interna della giacca quella fortuna inaspettata, piovutagli addosso qualche ora prima, fu giusto a quell’idea che si dedicò anima e corpo.

Ci vollero anni per dissodare completamente dei terreni asfittici e trasformarli in prati da produzione; tutti ben squadrati ed irrigati. Ci vollero anni per piantumare e far crescere filari d’alberi che, oltre a proteggere i campi dal vento e dal freddo, servissero pure da sostentamento per i bachi da seta che si allevavano come attività aggiuntiva; anni, per abbellire e trasformare quelle quattro mura ereditate in una vera cascina, ma alla fine, nel Maggio del 1908, sull’aia ancora fresca di costruzione si stava svolgendo una festa con gente seduta a tavola che, dai tanti che erano, era persin difficile contarli tutti.

A capo tavola c’erano l’Ortensio ed il Don Claudio che pareva facessero a gara nel riempire ognuno il bicchiere dell’altro, solo per soddisfare la segreta voglia di veder l’avversario ubriaco; poi c’erano tutti i dipendenti: famigli e braccianti e cavallanti della cascina; c’erano tutti i muratori, tutti che in qualche modo avessero preso parte alla costruzione; e gli amici, e questi e quelli, e tanti altri che nemmeno si sapeva chi fossero.

Tra l’Ortensio ed il Don Claudio c’era anche la sedia vuota della Lena che, povera donna, invece di godersi una giornata di festa, preferiva sovrintendere a tutto e correre da una parte all’altra per assicurarsi che tutto fosse stato veramente a posto. Quattro scappellotti ai bambini, che correndo in giro si facevano intemperanti; seguire personalmente la preparazione del cibo in cucina; camminare avanti e indietro lungo la tavolata d’assi carica d’ogni ben di Dio e scambiare due parole con questo o con quello.

Sciura Lena, sciura Lena, nessuno le dava tregua, che tutti la volevan vicina; sciura Spina, sciura Spina, si rivolgevano a lei, quanti avevano imparato a riconoscerla come la padrona vera, come colei che seppur da dietro le quinte, ma non si muove foglia che la Lena non voglia. Fu giusto al culmine di quella festa, quando si chiese al Don Claudio di benedire tutto e tutti e l’Ortensio stava già scappando per non assistere, che lui considerava uno scempio, ma che zittito da un’occhiataccia della Lena non aveva saputo opporsi, fu giusto allora che sentendo chiedere come avrebbe dovuto chiamarsi la cascina e se il nome di “Cascina Ortensia” fosse andato bene, fu allora che l’Ortensio si girò interrompendo la momentanea fuga, ed in un moto d’orgoglio e commozione comandò «No! Chiamatela Lena, anzi… chiamatela Spina. Spinetta… ecco… “Cascina Spinetta ”! Così andrà bene.»

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La Spinetta era un colosso che sorgeva nella campagna a Nord-Ovest di Novara.

Ad Ovest dell’Agogna, che segnava uno dei suoi confini naturali, vantava un muro di cinta che, tra coperto e scoperto, racchiudeva la bellezza di 100.000 mq. circondati da tremilasettecento pertiche di terra invidiabile.

C’era di tutto la dentro: corpi di fabbrica che comprendevano magazzini per le granaglie, abitazioni per i salariati, dormitori per gli stagionali, laboratori per chi, come fabbro e carradore, erano sempre talmente presenti che parte delle loro officine preferivano tenersele sul posto e su tre lati: casseri. Due aperti: per lo stivaggio del fieno e della paglia, per dar riparo alle macchine agricole, ad una miriade d’animali da cortile ed alle altre mille attività connesse; ed un altro chiuso: che comprendeva la stalla e la scuderia. Dopo i primi due anni, l’Ortensio, accondiscendendo alle richieste della sua gente, aveva aperto un altro varco nel muro di cinta, ed appena fuori, aveva fatto costruire persino un’osteria ed anche una chiesetta.

Il Don Claudio c’era venuto solo due volte, la Domenica, per dire messa, ma dato che tutte e due le volte era finito per scontrarsi con l’Ortensio, da allora aveva preferito mandarci qualcun altro. Qualcun altro più remissivo e più disposto a farsi strapazzare.

Di fuori era sicuramente degno di quel che stava dentro.

Qualcosa meno di un migliaio di pertiche, tra prati e marcite, erano destinate alla produzione d’erba che era subito trasformata in fieno, e sul rimanente, si crescevano granaglie d’ogni tipo che, in parte erano triturate ed usate per la stalla ed il rimanente era venduto. Un paio di pioppeti ed un bosco ceduo figuravano come beni spontanei, anche se le cure e gli sforzi per farli crescere meglio non si lesinavano di certo.

Gli orti erano un’enormità. Un’alta siepe circondava uno spiazzo subito al di fuori del muro di cinta, dove, un pezzo in gestione ad ogni famiglia che componeva la mano d’opera, ognuno ci coltivava a suo piacimento.

Sembrava fossero tutti felici, la dentro, stava persino diventando una moda, per quelli del settore, di vantare un qualsiasi tipo di coinvolgimento con la Spinetta, e l’Ortensio, tutto questo sembrava se lo fosse proprio meritato. Arrivava all’età di quasi cinquantacinque anni con la tranquilla sicurezza di avercela fatta. Non c’eran solo i terreni a costituire il patrimonio, ma la stalla contava duecento capi e nella scuderia i cavalli da lavoro eran diciassette; con in più due da tiro leggero, la cavallina, ed altri due da sella usati a turno dall’Ortensio e dal nuovo fattore.

E sì, s’era dovuto ricorrere anche a quello!

Il vecchio Urbano, ormai, aveva passato il tempo suo. Non si poteva di certo pretendere che fosse in grado di sorvegliare quella tenuta e non si poteva nemmeno pretendere di continuare a fare affidamento sulla Lena che, povera donna, avanti di quel passo avrebbe finito con l’esaurirsi; l’Ortensio, quindi, aveva scelto un fattore nuovo. Aveva scelto il Galante, un uomo d’una quarantina d’anni proveniente da una cascina vicina e, con buona pace di tutti, il vecchio Urbano era stato lasciato a riposo, a costruire, quando ne aveva la voglia, ceste di vimini o piccoli attrezzi d’uso comune. La Lena, quindi, si cominciò col lasciarla tirare il fiato, che, da quel che si vedeva, pareva proprio ne avesse un gran bisogno.

Oltre a tutto, per l’Ortensio stava diventando indispensabile di potersi sganciare sempre più spesso dal puro lavoro dei campi. I contatti, le contrattazioni e le discussioni sulle cose più disparate, richiedevano sempre più la sua presenza in luoghi diversi dal fango delle risaie o dalle zolle delle marcite. C’era anche la politica che si stava interessando a lui ed alla sua azienda, e lui, pur non condividendone certi metodi, capiva che il mondo in cui doveva vivere era quello e che, continuando a rimaner sordo a certi richiami, avrebbe finito con l’isolarsi da solo. Accettava quindi le conversazioni, accettava i contatti, accettava gli scambi di favori, e da quelli, nel tempo, ne scaturì anche la possibilità di allargare i propri confini, comprando ed inglobando le proprietà d’altre tre aziende confinanti.

A questo punto la Spinetta non era più una semplice cascina, ma con l’estensione che era venuta a conquistarsi era diventata il centro d’un piccolo impero. N’era ben cosciente lui, l’Ortensio, quando dalla sella del suo cavallo si fermava in qualche punto e facendo correre lo sguardo su quel che gli apparteneva, s’accorgeva che, in certi punti, sguardo ed orizzonte non bastavano nemmeno per comprendere tutto.

«Ma basta Ortensio, ma dove vuoi arrivare?» gli chiedeva la Lena, che da un po’ di tempo aveva cominciato a tossire e si portava in giro un’aria un poco smunta, un poco più dimessa «Ma non ti basta così? Non ti pare che sarebbe ora di preoccuparsi un po’ più di noi? Di me e di tuo figlio voglio dire!»

«Non sono io che lo cerco,» rispondeva lui «sono le cose che mi rincorrono ed io devo affrontarle. Hai visto i Caccia?» gli ricordava «Sì, va bene, loro hanno venduto la cascina a noi perché era morto il vecchio e la vedova non sapeva continuare da sola, ma i Malvasi?» continuava infervorandosi un tantino «I Malvasi ed i Comazzi? Quelli hanno venduto a noi perché non hanno saputo camminare con i tempi. Non ce la facevano più a tirare avanti.»

«No, Ortensio, no.» cercava lei di contrastarlo «I Caccia hanno avuto quella disgrazia, questo sì, ma i Malvasi ed i Comazzi, quelli li hai fatti fallire tu.» gli diceva chiaro e tondo «Sei tu, che tra latte e la quantità di roba che produci ed i prezzi che riesci a spuntare, non lasci spazio per nessuno. Malvasi e Comazzi falliti? Ma ne seguiranno degli altri se vai avanti così! Stai tranquillo,… se è questo che cerchi allora stai tranquillo, perché finirà che ne seguiranno degli altri. E questo è male…» interrompeva per un altro attacco di tosse «… questo ci porterà male.»

«Chi è che ti conta ’ste storie, il tuo Don Claudio; è lui che te le racconta, che da un po’ di tempo passi più tempo in chiesa che non in casa?» gli rinfacciava col suo solito sorrisetto ironico «Guarda che da quello n’avrai solo dei santini e delle benedizioni, vèh! E con quelle non si mangia mica.» Ma era inutile continuare quelle discussioni. La Lena non se la sentiva più di combattere. C’era qualcosa che non capiva, ma cominciava a sentirsi estranea a quel che la circondava; cominciava col dare un valore diverso a quel che possedeva, ed il sapere che parte del tutto era costata le lacrime di altri, questo le metteva dentro una specie di malessere che, alle volte, le diventava insostenibile. Allora faceva attaccare la cavallina e per davvero correva a cercare il prete che, negli ultimi tempi, era come se fosse rimasto l’unico con la voglia di ascoltarla.

L’Ortensio, no. Lui era troppo orgoglioso perché cercasse conforto da qualche parte, lui il conforto riusciva a trovarselo dentro di sé, ed era persin troppo occupato e distratto per accorgersi se ci fosse stato qualcosa che non andava.

«Sì, va bene,» si ammetteva da solo «c’era il Cesare che dava qualche pensiero, ma quelle son cose da ragazzi. Quelle son cose che il tempo le aggiusta da solo.» Ma pareva non dovesse essere così.

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Il Cesare Gaudenzi, quell’unico figlio nato e cresciuto come il reuccio di casa, quell’unico erede cui era stato imposto il nome del patriarca della famiglia, quel ragazzo non cresceva quel gran che bene.

«De ti, vegna ’n po’ chì, ti!» aveva cercato una volta il Don Claudio, con quella sua aria sbrigativa e tanto alla mano, di avvicinare l’Ortensio, senza nemmeno considerare che i tempi e la posizione del parrocchiano erano talmente cambiate, da non render più tanto corretto il chiamarlo “Giüdè”, come era invece solito fare «Dì un po’, ma tè, oltre che prenderti le cascine degli altri, tè a tuo figlio ci pensi, tè?»

«Töh, t'al chì ch'al ghè rivà 'nca 'l giudizio Divino; cosa è successo Don Claudio, hanno chiuso la caccia ai peccatori?» cercava l’Ortensio di scherzare, sorprendendosi persino un tantino dall’esser stato fermato in pubblico e, preso a braccetto, quasi di peso portato in disparte.

«Guarda che con tuo figlio le cose non vanno bene, nèh!» lo informava il prete «Si può sapere in che razza di modo pensi d’educarlo?»

Era vero! Al di la della voglia di scherzare, che l’attaccare il prete era sempre un esercizio divertente, ma quel che diceva quell’uomo era vero. Quel figlio sembrava proprio non crescesse così tanto bene. Grande, grosso e bello in faccia, questo sì, che all’età di quindici anni dava dei punti a tutti i coetanei, in quanto al fisico, ma per il resto…

Era un qualcosa di nascosto, di fumoso, d’impalpabile. Qualcosa che era andato ad incunearsi tra le pieghe del carattere o della personalità. Qualcosa che pareva roderlo.

Come tutti i bambini aveva anche lui eletto suo padre a modello, ad eroe personale, e come tutti i bambini, ne copiava le mosse, gli atteggiamenti, le azioni.

Ma in questo, il Cesare Gaudenzi, era spiazzato in partenza. Sentiva da solo che l’imitazione di cotanto padre era una cosa impossibile, ed il padre, sempre al lavoro, sempre preso da mille impegni e quando gli impegni non c’erano allora c’erano le solitarie riflessioni, il padre non aveva mai saputo o voluto perdere qualche tempo per mettersi alla sua altezza. Un poco di tempo che, di tanto in tanto, avesse fatto capire al ragazzo che lui non era un super uomo, che lui non era un Dio, ma che, come tutti, anche lui era solo uno come tanti, magari più occupato e magari un tantino più fortunato.

Questa mancata chiarificazione, nella formazione del ragazzo, fu quasi disastrosa.

Senza cercarlo, si era trovato instillato il senso dell’emulazione e della competizione; il disturbo del protagonismo. S’impegnava affannosamente in progetti assurdi ed irrealizzabili incaponendosi con la caparbietà degli adolescenti e ricavandone solo frustrazioni, quando si vedeva fallire tutto tra le mani; ma a questo punto, invece di ritirarsi su posizioni più difendibili, si accaniva in modo inspiegabile nel portare avanti anche quello che fallito lo era già, solo perché non accettava che una sua idea o un suo progetto non dovessero potersi realizzare. Suo padre ci sarebbe riuscito, pensava, ed allora lo avrebbe fatto anche lui.

Come avrebbe mai potuto fare, d’altronde, a mettersi all’altezza d’una personalità tanto forte, cui sembrava riuscire tutto in modo così facile? Come avrebbe potuto dimostrare, non a se stesso ma al mondo intero, che lui era degno della stirpe che rappresentava? Non c’era altro modo se non buttarsi nelle imprese più assurde, credeva, e nel tentativo di risolverle, potersi conquistare la fiducia di un padre che vedeva così lontano.

La benevolenza che sentiva carente e la fiducia nelle sue capacità, che ancora erano rimaste inespresse: questo cercava disperatamente di raggranellare da un uomo che, partito dal niente, si presentava come una roccia, come una potenza. Il contadino che s’era trasformato in possidente, il villano che si cambiava d’abito e prendeva sottobraccio il Prefetto dandogli del tu, che s’accompagnava con maggiorenti e notabili, da parigrado.

«Lo capisci o no, che lui sta cercando di copiarti!» cercava di spiegare il Don Claudio.

«E che c’è di male, anzi, mi pare un bene. In fin dei conti sarà lui che dovrà sostituirmi.»

«Sì, ma non adesso!» insisteva il prete «Non adesso che ha quindici anni! Per adesso deve solo continuare a fare il ragazzo, e questo carattere che sta mettendo assieme non è per niente una bella cosa.» cercava di spiegare ad un padre che non capiva. Ad un padre che, con un sorrisetto di compiacimento, quasi quasi si sentiva investito da giusto orgoglio nel sentire che il figlio, se non altro, dimostrava d’essere di buona razza.

Il Cesare era stato mandato a scuola tutti i giorni. Le elementari in una frazione vicina; tutti i giorni col calesse portato dalla Lena o da qualcun altro dei cavallanti, con i suoi libri e la cassetta del pranzo e tutte le sere a riprenderlo per riportarlo a casa, e questo, dati i tempi, era già un qualcosa che riempiva d’orgoglio. Una famiglia di semianalfabeti, con la madre che aveva frequentato fino alla seconda elementare, dando una frequenza più dettata dai lavori nei campi che non dalle lezioni scolastiche, ed il padre che a scuola non c’era andato per niente, ma che solo alla bellezza di quarant’anni s’era deciso ad imparare a leggere e scrivere, questo pareva già il massimo. Ma poi, finite le elementari, s’era anche deciso di mandarlo a Novara, in città, a studiare nelle scuole alte. “Al secondo piano” come ci scherzava l’Ortensio, e per questo scopo era stato persino assunto un dipendente in più che, come unico impegno, doveva solo fare qualche commissione in città e portare il Cesare a scuola.

«Cosa dovrei fare, ancora, mandarlo a catechismo?» cercava di giustificarsi l’Ortensio nei confronti del Don Claudio, non riuscendo mai a trattenersi dal sarcasmo.

«A parte che gli farebbe bene,» rispondeva l’altro senza mai raccogliere «ma quel che dovresti fare è stare col lui. Parlare con lui, metterti alla sua altezza e cercare di capirlo.»

«Non ne ho il tempo, non ci pensa mica il Vaticano ai miei affari! Che poi, da come stanno le cose…»

«Piantala, miscredente, e stai attento al tuo governo, piuttosto,» lasciava spazio il prete, che tanto con quell’uomo era inutile parlare «stacci attento che quelli… quelli, così come son buoni a darti son anche buoni a prenderti, vèh!»

Ma sembrava che dalla Spinetta nessuno volesse prendersi niente, anzi, era come fossa iniziata una corsa a dare, a portare, ad entrarci in qualche modo, tanto da poter farsi belli e poter dire d’esserci immischiati. Per traffici di partiti locali il governo la nominò “Stazione di Monta”, e da lì piovvero contributi a non finire; poi, il Ministero dell’Agricoltura richiese un angolo insignificante di terreno per farci “Coltivazione Sperimentale”, accompagnando la richiesta con altrettanta pioggia dello stesso tipo, poi, persino l’industria si presentava ogni tanto, portandoci strani macchinari d’innovazione per il lavoro nei campi che, tra provarli e vedere come lavorassero, capitava, ogni tanto, che si ritrovasse la metà dei lavori già fatti da altri.

Una moltitudine di gente faceva avanti e indietro nella cascina che, a volte, sembrava giorno di mercato. Arrivavano persino sopra degli strani trabiccoli che loro chiamavano automobili.

Degli ammassi di lamiere che, tra il fumo che soffocava e l’odore che appestava, facevano spaventare tutti e diventar furibondi i cani.

Anche l’Ortensio ne possedeva due, di quelle strane cose che correvano da sole senza l’ausilio dei cavalli. Due mostri sacri che occupavano lo spazio recuperato da quel ch’era prima stato un magazzino. Due catafalchi da osservare ma da non usare, giacché l’unica volta che l’Ortensio ci aveva provato, era finito col travolgere due intere nidiate di papere ed azzoppare un maiale, prima di riuscire a fermarsi andando a sbattere in un covone di paglia.

Durò meno di dieci anni quel periodo d’oro. Un tempo in cui l’Ortensio, quando presente, soleva portarsi da re magnanimo. Attento ad ogni piccolo bisogno, attento al più piccolo cambiamento, impeccabile nel vestire, che ormai i panni da lavoro erano appesi ad un piolo e relegati in un angolo dimenticato. Si aggirava fiero per il suo territorio con una parola buona per tutti; e la Lena, che dalla cascina non s’era mossa mai, seduta al sole, sempre con quella tosse che ormai non la lasciava più, da sotto lo scialle nero sorrideva smunta a quanti la salutavano e si fermavano a far quattro chiacchiere.

Anche il Don Claudio ci veniva, ogni tanto, a portar conforto a quell’anima stanca che ormai più che una parrocchiana era finita col diventare un’amica. Senza curarsi delle occhiate e dei sarcasmi dell’Ortensio, arrivava nella corte col suo calesse, si fermava giusto un passo dalla casa e si sedeva volentieri anche lui sul sasso, portando le novità del mondo ed un poco di conforto.

«S’è sposato il figlio del Tarcisio; ed il Giovannino, te lo ricordi il Giovannino? Ma sì… il figlio di Tobia e della Donata… quello che chiamavano gamba storta, te lo ricordi? Bene, quel Giovannino lì è partito per l’America. E te come và, cosa mi conti, te?» chiedeva il prete a quella donna, che la vedeva consumarsi e spegnersi da una volta con l’altra che l’incontrava «Sempre il solito, èh! E tuo marito?... E tuo figlio?...» e che altro dire, che certe volte si trovava disarmato persino lui «Sono vecchio, Lena; sono vecchio, e questo mondo è come se non lo capisca più. Tutti che van di corsa, tutti che pare si odiano e godano nel distruggersi.» confessava all’amica, nel considerare a che punto fosse giunta la politica del mondo; con una situazione per cui sembrava si stesse solo aspettando una scusa, per scatenare una guerra che sarebbe stata terribile. Ma questo, la Lena, per fortuna o per disgrazia non fece a tempo vederlo, poiché nel Luglio del 1914 morì.

Era salita nei solai con una bracciata di foglie di gelso per portare cibo fresco all’allevamento dei bachi da seta, e quando fu agli ultimi gradini ebbe come un giramento che la costrinse a fermarsi, che la costrinse ad abbandonare il fascio di ramaglia e sedersi sull’ultimo gradino con la schiena appoggiata al muro. Si sentiva un gran peso, si sentiva come la voglia di tossire ancora, ma n’ebbe solo uno sbocco di sangue, un lungo sospiro, ed il buio della morte.

La trovarono qualche ora dopo, che dall’immobilità e dalla compostezza sembrava dormisse, sembrava si fosse solo fermata un attimo per riposarsi. A denunciare il dramma era solo rimasto quel filo di sangue, ormai rappreso, che dalla bocca le filava in grembo e s’allargava in una macchia oscena.

L’Ortensio ne fu distrutto, ne fu annientato al punto da cominciare a cambiar carattere; e non s’era capito se per l’amore della sua donna, che se n’andava a quarantaquattro anni lasciandolo nella disperazione, o se invece per la sua nuova posizione sociale, ma non s’azzardò nemmeno per un attimo a mettersi per traverso al Don Claudio che n’officiò un funerale che fece storia. Fu sepolta nel cimitero di Novara, e si costruì una tomba con una grande statua di un angelo piangente appoggiato ad una colonna spezzata.

Da lì, padre e figlio fu come se diventassero estranei.

C’era qualcosa tra di loro, qualcosa che li contrapponeva, qualcosa che quasi li inimicava, che li estraniava. Mai, come all’inizio di questa loro nuova esistenza, ebbero modo d’accorgersi che la loro famiglia era stata tenuta assieme dalla madre. Pareva fosse stata la Lena, con la sua pazienza, che in tutti quegli anni avesse saputo smussare, addolcire, appianare o lenire, le frizioni che tra i due sembrava inevitabile sorgessero. Adesso se n’accorgevano! Mancando di colpo quella che era stata la gran mediatrice, i due uomini si trovavano adesso l’un contro l’altro contrapposti; con i loro caratteri incompatibili, con le loro aspirazioni contrastanti, con le loro idee inconciliabili.

«È ben stato mandato a scuola, no?» diceva l’Ortensio, del figlio, al Don Claudio che, sentendosene investito, ogni tanto si provava a parlarne ora con l’uno ed ora con l’altro «È stato mandato a scuola ma è come se non fosse servito a niente!» si confidava «Lo sapete anche voi, lo sapete anche voi che è anche stato mandato in altre cascine per impararne qualcosa, e cosa se n’è guadagnato, èh? Se n’è guadagnato che tutto quel che sa fare è solo di contraddirmi!» riusciva a sfogarsi «Ecco cosa se n’è guadagnato; di contraddirmi con idee stupide e che non stanno neanche in piedi.» Questo si raccoglieva il prete quando parlava con uno, salvo poi sentire una musica diversa quando suonava l’altra campana.

«Non è più il modo di condurre un’azienda, questo.» reclamava il Cesare «I tempi stanno cambiando e bisogna rimettersi al passo. Bisogna cambiare!» Il Don Claudio era troppo vecchio per capire cosa mai bisognasse cambiare. Alle volte pensava di capire che fosse solo una questione di ripicca, ma era troppo vecchio, ormai aveva quasi ottant’anni e nemmeno lui se la sentiva più di combattere.

Per troppi anni s’era logorato il fisico nel correre dietro ai bisogni di tutti. Per troppo tempo s’era stracciato il cuore nel condividere le pene della sua comunità; adesso era vecchio, non se la sentiva più, poteva solo allontanarsi scotendo la testa, masticando il disgusto e lasciandosi scappare, in sordina e tra i denti, qualcosa di grosso di cui subito dopo si pentiva. Ma con quei due, Santa Madonna, con quei due c’era proprio da uscirne pazzi. Con l’Ortensio, che con quella sua fermezza così amabile riusciva sempre ad entrare nelle buone grazie di tutti, era mai possibile che non riuscisse ad abbattere il muro che lo separava dal figlio? E con quell’altro, con il Cesare, non poteva una buona volta mettersi tranquillo, che di carne al fuoco ce n’era già fin troppa?

Il Don Claudio lo capiva, in fondo. Lui sapeva che sotto la scorza del possidente elegante e del padrone che si accompagnava con i nomi più belli della zona, lui sapeva che bastava grattare appena appena e si sarebbe ritrovato il contadino che era sempre stato. Possibile, pensava, possibile che ci fosse stato qualcosa che gli sfuggiva e che invece il figlio aveva intuito?

«Cambiare tutto?» si domandava anche lui, parafrasando il Cesare «E cosa mai avrebbe dovuto cambiare se era sempre stato così!» Il Don Claudio lo conosceva bene, lui lo sapeva che per quell’uomo il possesso era tutto. Sapeva che le quasi duecento mucche che stavano nella stalla della Spinetta e le quasi altrettante sparse nelle altre cascine acquisite, per lui rappresentavano una ragione di vita. “Il latte si vendeva male?” Lo accusava il figlio. “La terra riservata alla produzione d’erba era troppa?” Cercava di spiegare. “Per condurre a questo modo ci vuole troppa manodopera?” Ma quel testa calda non portava nessun’altra idea diversa, però! Era solo capace di voler cambiare, ma cambiare cosa, forse, non lo sapeva nemmeno lui. «No,» si diceva da solo il prete, «queste son solo scuse, dev’esserci qualcos’altro che lo rode. Anzi, dev’esserci qualcosa che rode tutti e due. È come se li separasse un muro,» si diceva ancora «ma chi lo abbia costruito non si sa, e non si sa nemmeno perché uno ci stia da una parte e l’altro dall’altra. No,» continuava a dirsi in un monologo che ogni tanto lo portava lontano «forse è solo che l’Ortensio lavora e prospera per il solo gusto di farlo ed ai guadagni non ci pensa. I guadagni, se e quando ci sono, li considera solo come una conseguenza; per il Cesare è diverso, lui non ha mai provato a non avere niente, non ha mai provato a doversi costruire un pezzo dopo un altro. Forse lui pensa che, poiché lo vede fare a suo padre, lui pensa sia tutto facile e vorrebbe trasformare la Spinetta in una macchina da soldi. Vorrebbe monetizzare tutto!» si eccitava il prete, che forse cominciava ad intravederne il bandolo della matassa «Ma allora l’Ortensio è innocente? Allora di colpe non ne ha, lui? Ah no, èh, No…!» si rimarcava con l’antico senso di contrapposizione che li aveva sempre visti rimbeccarsi l’un l’altro «Lui è colpevole dei suoi assolutismi, è colpevole dei suoi “con me o contro di me”, dei suoi “si fa così o niente”. Lui è un forte, lui è un leone che sa conquistarsi il suo spazio, e chi non sa tenere il suo passo, allora, non val la pena di fermarsi ad aspettarlo; chi non sa essere forte quanto lui, tanto vale lasciarlo che soccomba; ecco di cosa è colpevole lui. La Lena lo sapeva questo, ci si era macerata nel cercare di conciliarlo col figlio e non riuscendoci forse n’è stata la prima vittima. Ecco dove sta il muro!» si rendeva conto il Don Claudio «Uno, senza mai averlo provato, ma considera il figlio un incapace; l’altro, senza mai provare ad adattarsene, ma considera il padre come un despota.»

Pensieri forti, pensieri che turbavano la ragione del vecchio parroco, ma eran tempi, quelli, in cui i pensieri pesanti si rincorrevano fino a sovrapporsi, dato che, meno di un anno dopo, la scusa che si stava aspettando finì per capitare e la guerra fu dichiarata.

Una guerra che si portò via la gioventù dai campi e che, da quel che si poteva vedere fin dalle prime battute, sarebbero stati in pochi a farvi ritorno.

L’Ortensio, fin da subito fu avvicinato e facilitato per risparmiare l’arruolamento del Cesare, ma lui tergiversava su quella possibilità. Da una parte ci teneva a risparmiare al ragazzo i pericoli cui sarebbe andato incontro, ma dall’altra pensava anche che un poco di disagi e di privazioni non avrebbero fatto che del bene. Si risolse per una via di mezzo: parlando con chi di dovere, ottenne che ci fosse veramente qualcuno che avesse a vegliare sul figlio; che lo avessero arruolato, questo sì, che gli avessero fatto provare quel che significasse la vita dura, questo anche, ma che sì fosse stati ben sicuri però, che non sarebbe mai stato dislocato in posizioni di vero pericolo.

Difatti fu quasi inutile tanta apprensione, perché dopo due anni di disagi, di fango e d’avventure varie, il ragazzo ebbe una gamba quasi stritolata da un mezzo in movimento e fu ricoverato in ospedale. In salvo, dunque; in ospedale con una gamba da riparare, ma in salvo, anche se, a casa, gli si stava preparando la sorpresa più grossa che potesse mai immaginarsi.

Poiché la guerra aveva avuto varie vicissitudini d’avanzamento e d’arretramento, c’erano qualche migliaio di persone che vagavano da una regione all’altra in cerca d’una sistemazione qualsiasi, purché li allontanasse dai bombardamenti e dalle truppe d’occupazione. Capitò che alla stazione di Novara si fermasse una tradotta diretta a Milano, che si trovava fuori percorso solo perché certe linee erano sovraccariche dai convogli di materiale diretto al fronte. L’Ortensio si trovava giusto in città, quel giorno; c’era andato per incontrarsi con qualcuno nel palazzo della Provincia, e come fu o come non fu, ma quando a sera tornò alla Spinetta, sul calesse non era più da solo.

Lo accompagnava una ragazza che aveva meno dell’età di suo figlio. Anzi, poiché l’aria spersa e gli occhi tristi, pareva di gran lunga più giovane. Dimessa nel vestire e col suo fagottino in mano, era come il ritratto di un uccellino caduto dal nido.

Non s’è mai capito cosa sia passato per la testa dell’Ortensio. Forse il bisogno di riaffermare un’autorità mai messa in discussione da nessuno; forse la dimostrazione sfacciata del suo comando; o forse ancora, solo la denuncia della disperata solitudine, ma fatto sta che quando cominciò a parlare di matrimonio, allora più d’uno cominciò col mettere in discussione la fermezza d’una testa che, in fondo, forse cominciava per davvero ad invecchiare.

«Ma tu la conosci?» voleva insinuare il Don Claudio «Tu lo sai chi è?» chiedeva esasperato, che quella novità lo indignava mica poco.

«Non m’importa saperlo, non m’importa sapere niente, per me va già bene così.» gli rispondeva quel testone, che lui avrebbe voluto picchiarlo.

«Andrà bene a te, ma a tuo figlio c’hai pensato? Sei sicuro che andrà bene anche a lui?» cercava il prete di farlo ragionare.

«Mio figlio è solo mio figlio. Qua dentro il padrone sono io, e se dico che una cosa va bene, allora dovrà andar bene per forza.»

«Ma ci sono delle questioni d’eredità, Santa Madonna, possibile che non la vuoi capire?!» insisteva il Don Claudio «Non ti pare che in questo modo diventa come se il Cesare fosse già escluso, come se fosse già cancellato?» insisteva ancora, già sentendo che sarebbe stato inutile discutere; difatti fu tutto inutile. Quella ragazza arrivata poco tempo prima sul calesse, come ripescata dalla sorte dal pozzo di un’umanità sofferente, proveniva da San Donà di Piave; si chiamava Pasquina, in onore del giorno di Pasqua in cui era nata e, per quante ricerche fossero state fatte, pareva che fosse al mondo del tutto sola. Le sue dichiarazioni per il rifacimento dei documenti, andati persi nelle traversie della guerra, anche se non avevano convinto del tutto il Don Claudio, dopo ricerche e richieste d’informazioni, per quel ch’era stato possibile dati i tempi bui, non avevano portato a nulla di diverso da quel che già non si sapesse. Troppi disastri nei municipi e negli incartamenti, troppi incendi e distruzioni negli archivi, troppi morti e dispersi, tra quanti avrebbero potuto ricordarsene qualcosa.

Così, pur con sguardi inquisitori, pur con occhiate pesanti, pur con dubbi che si manifestavano in interruzioni del discorso e sguardo fisso nel vuoto, ad inseguire dei percorsi misteriosi che solo il prete poteva decifrare, ad un certo punto anche lui dovette arrendersi e prendere per buona quella figuretta che, con la stessa grazia di uno dei suoi santini, aveva fatto la sua comparsa nella loro comunità.

«Sembra tanto per bene…» diceva la gente «Ma sì, povera figlia, un poco di tranquillità anche per lei!» dicevano come per assolversi la coscienza, giacché si sapeva che quella guerra infieriva in contrade lontane da casa loro.

Anche l’Ortensio, però, era andato a cacciarsi in una posizione difficile. Quale sia stata la molla che aveva fatto scattare l’inizio della storia non era dato saperlo, ma di sicuro le sue impennate d’orgoglio, le sue intemperanze nell’accettar consigli e, soprattutto, la sua mania di porsi in comando della sua condotta, oramai lo avevano portato troppo lontano. Era, vale a dire, andato ad esporsi in dichiarazioni assolute che, via via che passava il tempo, queste era come se tornassero a presentargli il conto.

Aveva parlato di risposarsi? Ma ora non n’era più tanto convinto! Aveva sostenuto il suo volere a dispetto di tutto? E come faceva adesso a far marcia indietro? Infatti, nel Febbraio del 1917 si risposò. Più per amor di parola che non per amor di giudizio, si risposò in Duomo, a Novara, in una cerimonia dove spiccavano i più bei nomi della città ma non c’era nessun invitato del borgo o men che meno della cascina. Era presente solo il Don Claudio, nascosto in fondo, defilato da una delle enormi colonne, a far da testimone non invitato, per poter così riferire alla Lena nelle sue preghiere.

Fu un matrimonio triste, privo di gioia. Fu una cerimonia priva del benché minimo slancio d’amicizia o d’amore, fu solo una cosa che assomigliò più ad un contratto di fronte al notaio che non all’unione di due cuori. Il suo, l’Ortensio, lo aveva perso per strada, e lei, la Pasquina, sembrava spersa in un qualcosa che stava succedendo troppo in fretta. Sessant’anni già suonati per lui, e vent’anni non ancora compiuti per lei; che per quell’anno che mancava ancora alla maggiore età, il Galante, il nuovo fattore, aveva persino dovuto assumersi l’onere di farsi tutore.

«Certo però che se l’è scelta giovane, nèh!» diceva la gente della cascina, dopo i primi tempi, quando cominciava a vederla gironzolare sull’aia o per la corte.

«Èhh… cosa vuoi… al cuor non si comanda.» malignavano le donne, impegnate e sgranar pannocchie «Sì, senti lei, de… adesso lo chiama “cuore”!» ma le donne si sa, le donne non possono far a meno di sparlare; certo però, certo che anche gli uomini… certo che quel: “Aqua cheta rompe i ponti” che si sentiva ogni tanto sussurrare da qualcuno che non poteva fare a meno di girar la testa… per non passare al più triviale: “Facia smorta…” com’era più d’uso da queste parti…

Non sembrava proprio che la Pasquina s’inserisse così bene, nella vita della comunità, come invece era sembrato all’inizio. L’unico suo punto di riferimento era, e rimaneva, l’Ortensio; era lui che, come reazione ad una giovinezza che sentiva cominciare incrinarsi, per contrapposizione, si sentiva anche più spinto verso donne più giovani. Era lui, dunque, l’unico che potesse tenersela vicina, che potesse vezzeggiarla, viziarla; quasi giocarci assieme come fosse stata la bambina che non aveva mai avuto, e che questa bambina se la portasse pure a letto, non era che la parte più stuzzicante dell’intera faccenda.

«Ma che ci faranno a letto assieme,» continuava qualcuno a malignare «giocheranno con le bambole?» si chiedeva chi, per moralità o per scarsa fantasia, non si capacitava per la differenza d’età. «Stai tranquillo che il da fare se lo trovano.» dava di rimando chi, per formazione mentale più aperta o più spinta, era proprio in quella diversità che ci vedeva un succo delle cose del mondo, riservate a chi poteva permetterselo.

Era come se tutti vivessero in una specie d’attesa, in una specie di curiosa attesa di un qualcosa che, prima o poi, ma di sicuro sarebbe dovuto succedere.

Nemmeno nel 1918 terminò quello strano stato d’animo, nemmeno quando, con la fine della guerra, si vide ritornare il Cesare tutto intero ma con una gamba rigida. Nemmeno allora terminò, ma si continuò a vivere aspettando, curiosando e sparlandosi addosso, che nei lunghi dopo cena delle sere invernali, tutti radunati a godere del tepore della stalla, pareva che l’argomento di discussione fosse rimasto sempre e soltanto quello.

Era molto cambiato il Cesare, non solo fisicamente: che quella gamba rigida, quasi quasi, pareva aggiungere altro fascino a quel che c’era già; non solo di testa: che lo si vedeva più posato, più riflessivo, più uomo insomma; ma pareva cambiato anche nel carattere. S’era fatto meno impulsivo, meno intemperante, molto più sereno, insomma; era come se sapesse ragionar meglio e difender meglio le sue idee. Se n’accorse subito l’Ortensio di queste novità, se n’accorse subito, quando, passati i primi giorni di giubilo, come se l’interruzione della guerra fosse stata solo una pausa, il Cesare tornava ancora all’attacco per il riassetto della cascina. Adesso aveva idee nuove.

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Il Cesare, per l’incidente avuto nelle retrovie del fronte, aveva passato quasi un anno in ospedale. Un anno di tribolamenti e di dolori, un anno inframmezzato dalla bellezza di tre operazioni, che quella gamba s’era fatto di tutto per salvargliela, al punto che, uno degli interventi, lo aveva persino avuto nell’ospedale attrezzato dagli Americani.

«Non si può fare di più.» era stato il parere dei chirurghi «Se fossimo stati a casa nostra, si sarebbe potuto tentare una ricostruzione del ginocchio; ma son cose sperimentali, sarebbe comunque stato solo un tentativo.» comunicava il Maggiore medico al collega Italiano che, spinto chissà da chi, ma pareva fosse richiesto un particolare interessamento per quel giovane che, in fondo ed al confronto di altri, non pareva nemmeno conciato tanto male «E poi, per dirla tutta, io lascerei stare.» continuava quello «Tutto quello che si vorrebbe tentare più di così, sarebbe solo sperimentazione.» Ne sembrava convinto, il maggiore, tanto che questa sua convinzione finì per mettere il cuore in pace a tutti e non se ne parlò più.

Lui intanto, però, il Cesare, lui in quell’ospedale ci passò quattro mesi. Tra visite, studi, consulti, ed un intervento definitivo, la dentro ci passò la bellezza di quattro mesi.

Era, di letto, proprio a fianco di un militare Americano ferito all’addome. Un ragazzo nato in America, ma da genitori Italiani che conservavano la lingua materna, essendo quella l’unica lingua parlata nel privato di casa loro. Proveniva dallo Iowa, ed essendo in pratica anche lui un contadino, i due ragazzi passarono i mesi di degenza nello scambiarsi informazioni sui rispettivi sistemi per svolgere il proprio lavoro. Tra quel che apprese dal nuovo amico su come in America si conduceva una Farmhaouse, e tra le sue reminiscenze scolastiche, il Cesare era tornato a casa con le idee chiare: secondo lui la Spinetta doveva diventare un ranch, e di questo n’era talmente convinto che, nel comunicarlo al padre, finì quasi quasi per inculcargli il chiodo del dubbio.

«Io pascolo gli agnelli di Dio, caro il mio Ortensio!» gli rispondeva il Don Claudio, dopo sentita la novità che, sfruttando una scusa qualsiasi, l’Ortensio era corso a spiegargli per chiederne un parere «Io sono un pastore d’anime, mica di vacche. A quelle ci dovrai pensare tu; e di già che ci sei, vedi un poco se ti ricordi anche qualche preghiera, per caso, perché da come si stanno mettendo le cose…»

Erano poche, per il prete, le occasioni d’esser lui sarcastico con l’alto e quelle poche che capitavano…

«Qualche preghiera, sì,» si diceva l’Ortensio tornando a casa «non è mica con quelle che si pagano le sommissioni, vèh! Bastassero quelle per far funzionare le cose, staremmo freschi, staremmo!» ma poi non poteva fare a meno di sorridere, bastava il pensiero di vedersi il prete a pascolare le vacche, che già era sufficiente per fargli cambiare umore.

«No, non se ne parla.» dava risposta al Cesare che ne chiedeva conto, pretendendo che bastassero quelle tre parole per chiudere l’argomento.

«Ma ci hai pensato, almeno?» insisteva l’altro.

«Certo che ci ho pensato. Apposta t’ho detto che non se ne parla; ci ho pensato ed ho deciso che non va bene. Non se ne parla, appunto!» Trovava persin strano, l’Ortensio, il dilungarsi in chiacchierate simili per dover spiegare una sua decisione; di solito bastava un sì od un no, ma quella volta era presente la Pasquina e, come suo solito, con lei non voleva fare brutte figure.

Anche il Cesare lo aveva capito. Trovava strano che il padre non si fosse arrabbiato ed avesse persin detto una decina di parole, invece di liquidarlo con le solite due o tre.

«Vieni, ti presento alla tua nuova madre.» gli aveva annunciato al suo ritorno l’Ortensio, dopo i saluti e gli abbracci di prammatica. Poi, accorgendosi d’aver detto qualcosa di sbagliato «Sì, insomma, tua madre… la mia nuova moglie… fa un po’ te.» Aveva una specie di riserbo alle volte, l’Ortensio. Dopo i primi tempi, dopo i tempi delle tardive follie, era come se n’avesse dei ripensamenti, come si sentisse in qualche modo legato da una situazione che lo impacciava; era come se, quando si trattava di tirare in ballo la moglie, lui ne provasse sempre una specie di fredda e sottile vergogna.

Lui, il Cesare, trovandosi una matrigna che in occasioni normali avrebbe potuto essere la sorellina minore, non aveva fatto storie. C’era rimasto di sasso, questo sì; c’era rimasto al punto che quasi si sarebbe messo a ridere, ma aveva imparato ad essere più paziente, più temperante, aveva imparato ad essere meno spontaneo.

Sapeva già che il padre non avrebbe accettato le sue idee, sapeva già che avrebbe dovuto insistere inutilmente, ma sapeva anche che l’Ortensio aveva ormai sessant’anni e lui invece ventitré; sarebbe quindi bastato lasciare che la natura facesse il suo corso, e fra non molto tempo avrebbe potuto realizzare da solo quel che gli girava per la testa. Tutto se non fosse arrivata quella donna-bambina, però; quella sì, che gli si stava mettendo per traverso.

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«Attenta, non passare di lì, ti bagneresti i piedi.» diceva il Cesare alla Pasquina, durante una passeggiata per i campi «Questo prato è stato preparato a marcita. Ancora non si vede perché l’erba è ancora alta, ma appena sotto è tutt’acqua.»

«È come le risaie d’estate?» chiedeva l’altra curiosa, che s’era meravigliata mica poco nel vedere le risaie, che lei chiamava laghetti.

«No, è un’altra cosa. È diverso, le risaie sono una cosa, le marcite sono un’altra. Ma come? Sei qui da un anno e ancora non te lo hanno spiegato?» si meravigliava il Cesare.

«Spiegato, sì! A me non dice mai niente nessuno; cosa vuoi che m’abbiano spiegato, se sembra che nessuno mi voglia parlare.»

«Vieni qui, vieni qui vicino che ti spiego. Vedi che c’è l’acqua? All’inizio dell’inverno, qualche prato viene allagato con qualche centimetro d’acqua… No no, non è per far crescere l’erba, è per non farla morire.» spiegava alla donna che non capiva «Vedi, mettendo un poco d’acqua, il gelo dell’inverno non arriverà a toccare le radici dell’erba, e così, sfruttando ogni minimo raggio di sole, in  primavera sarà già alta e pronta al taglio. Si guadagna un taglio d’erba in questo modo.»

«Ingegnoso!»

«Sì, ingegnoso, anche se però non si fa mica lo stesso fieno del mese di Maggio; quest’erba si dà alle mucche, e per loro che non lavorano va bene lo stesso. Per i cavalli, invece, per loro aspettiamo il Maggengo, che quello, in quanto a sostanza, quello è tutta un’altra cosa. Ma davvero nessuno ti ha mai detto niente?» insisteva il Cesare, nel vedere come la donna si ponesse in una condizione di curiose scoperte. Sembrava volesse essere allegra per la passeggiata nei campi, ma, allo stesso tempo, quasi riservata, quasi timorosa di inoltrarsi e di penetrare degli aspetti cui era stata tenuta in disparte. Aspetti che avrebbero dovuto appartenerle, che avrebbero dovuto far parte della sua vita, ma che, in qualche modo, le sembravano estranei.

«Cosa vuoi che si dica, a me! Io sono poco più della serva di casa.» diceva, abbassando un po' la testa e sottraendosi allo sguardo.

«Mio padre non si confida con te?»

«Tuo padre non si confida con nessuno. I primi tempi, forse. I primi tempi sembrava che si riuscisse a parlare, sembrava anche che stessimo bene insieme, ma poi…» si faceva triste e s’avviava lenta per il sentiero, col Cesare dietro, che era la prima occasione in cui potessero, lui e l’altra, di parlare un poco più liberamente, senza essere sotto gli occhi di questo o di quello.

«E dai, non dire così! Se vi siete sposati ci sarà pure stato qualcosa, no?»

«Oh, guarda vèh, per me c’era solo tanta fame. Di tutto quello che mi possa ricordare, c’era la fame e la voglia di fermarmi in qualche posto e star tranquilla. Dopo due anni da sfollata… dopo due anni di presa di qua e sbattuta di là…»

«E lui?»

«Lo sai te? No, perché se lo sai dovresti dirmelo, vèh, perché io non l’ho ancora capito.»

Faticava un poco, il Cesare, a conservare il passo della Pasquina. La gamba gli si affaticava presto e non aveva ancora preso l’abitudine all’uso del bastone; dopo qualche tratto cominciava ad impacciarsi e doveva fermarsi un attimo per riprendersi e coordinarsi.

La giornata era bella, faceva persin piacere di sentirsi addosso quel poco di sole che riusciva a filtrare dalle foschie di primo inverno. Camminavano e chiacchieravano, si fermavano e riprendevano, come due sfaccendati in un giorno di festa, lungo un sentiero costeggiato da un’interminabile filare di gelsi.

«Ma avrete pure anche voi i vostri momenti, no? Avrete anche voi i vostri momenti… come dire…intimi.»

«Certo che li abbiamo! Quando l’Ortensio fa i conti di cassa ed io l’aiuto a spuntare le voci già evase! Oppure quando legge i contratti e mi tira un’occhiata di compatimento se chiedo per saperne qualcosa! O quando mi racconta che in un angolo da qualche parte, le spighe del riso stan prendendo il “brusone” e per salvare il salvabile bisogna distruggerne una parte. Allora guarda, nèh, quelli sono dei momenti di un’intimità che non ti dico neanche.» Il Cesare non parlava, era come se non capisse, gli si stava disegnando un quadro che non conosceva. «No,» continuava la Pasquina «la verità è che tuo padre m’ha sposata senza sapere il perché e adesso di me è come se non sappia più che farsene. Sembra che si vergogni. Lo vedo bene, sai! Lo vedo bene le poche volte che mi porta in giro da qualche parte. Se ne vergogna! Non so se per lui o per me, ma questo è, te lo dico io che se ne vergogna.»

«E gli altri? C’è tanta di quella gente dentro questa cascina! Non dovrebbe essere difficile farsi delle amicizie.»

«Oh, sì! I primi tempi ci avevamo ben provato, ma poi… forse è stato vedendo l’atteggiamento dell’Ortensio… ma poi è stato come se tutti quanti non facessero che scansarmi. Cosa vuoi, quel che non è buono per il padrone, figuriamoci per il famiglio.»

«Sai cosa facciamo? Ti porto a parlare con un mio amico che si chiama Don Claudio e…»

«Oh, buono quello! L’ho conosciuto qualche mese fa.»

«È un brav’uomo il Don Claudio!»

«Sì, certo. Sarà anche un brav’uomo, ma ha certi occhi… ha certi occhi che te li pianta dentro e sembra che ci legga tutto quel che c’è da sapere e anche di più. Ma adesso basta, dimmi di te, piuttosto, cos’è quest’idea di cambiar qualcosa che fa tanto arrabbiare tuo padre?»

Ed il Cesare cominciò a parlare, cominciò a spiegare ed appassionarsi tanto in quel che diceva, che si lasciarono con quasi una supplica:

«Mi aiuterai? Proverai anche tu a convincerlo?»

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Stava cominciando l’inverno, e la Spinetta era come si rilassasse.

Finito di arare le risaie e seminatoci il frumento per fare alternanza, i campi erano lasciati immobili nell’attesa della stagione nuova. Iniziava adesso tutto il lavoro di mantenenza: un argine che tendeva a franare, macchine ed attrezzi che richiedevano qualche piccolo intervento, sistemazione dei magazzini, che per tutta l’estate non s’era fatto altro che ammassarci dentro, ma prima o poi, bisognava pure che qualcuno pensasse a riordinarli. Gli animali poi, inverno o estate che fosse, quelli bisognava accudirli allo stesso modo; il rilassamento quindi era solo apparente, c’era solo l’Ortensio che veramente si poteva dire più libero. Più libero di risolvere dei problemi lasciati in disparte, di pensare a nuove possibilità, di agganciare nuovi contatti. Poi arrivò l’invero vero, quello che inchiodando tutto nel gelo ed ingessando la campagna sotto la neve, invitava anche a rimanere in casa davanti al camino acceso. Era stata questa disponibilità che aveva fatto decidere l’Ortensio a parlar chiaro con il figlio e risolvere quei discorsi lasciati sempre un poco in sospeso, ma che lungo andare sembrava pesassero sui rapporti di tutta la famiglia.

«Certo che sarebbe bello!» ammetteva anche lui, dopo sentite un’altra volta dal figlio, quelle che sarebbero state le sue idee «Sarebbe bello, ma dovrai capire che non si può fare.»

«Ma perché dici così,» insisteva l’altro «se te l’ho appena spiegato, scusa!» non si rassegnava il Cesare, che quella d’esser seduti assieme davanti al camino e con un bicchiere in mano, era un’occasione forse unica e che non andava assolutamente sprecata.

«Me l’hai appena spiegato? No, tu m’hai spiegato quello che ti piacerebbe, m’hai spiegato quello che vorresti che fosse, m’hai spiegato quello che ti piacerebbe sognare. Me l’hai raccontato proprio come lo hai raccontato a lei,» diceva con un cenno della testa ad indicare la Pasquina, che seguiva la conversazione da seduta accanto la finestra, impegnata nel cucire qualcosa «ma da quel che uno vorrebbe a quel che la realtà concede, c’è sempre di mezzo un compromesso che alle volte è inaccettabile.» Aveva appoggiato il bicchiere sul gradino del camino; un poco per farlo scaldare, che negli ultimi tempi non sopportava più tanto bene certi freddi e certe umidità, ed un poco per avere le mani più libere; come se quel che si apprestasse a fare fosse una cosa di un impegno tale, per cui bisognasse sentirsi il più liberi possibile. Appoggiandosi, quindi, con le ginocchia ai gomiti, e le mani libere, appunto, di gesticolare a suo piacimento «Senti qua,» cominciò col dire «senti qua che adesso ti spiego.

«Vedi, certe volte penso che tu sia nato qui ma che di questo posto non abbia imparato ancora niente… No… lascia stare l’insofferenza. Non cominciamo con i tuoi modi di fare, parliamone con calma e facciamo che sia l’ultima volta. Allora,» si abbassava l’Ortensio, fino ad appoggiarsi con i gomiti alle ginocchia e, più rivolto al fuoco che non al figlio: «quando una mucca sta in una stalla, legata al suo posto davanti alla mangiatoia, succede che si prende la bracciata d’erba che le viene data e se la mangia. Ma una mucca è molto selettiva nel mangiare. Forse tu non hai mai fatto caso, ma la mucca, potendo, mangia solo quel che le piace di più. Quindi, prima si sceglie l’erba migliore, poi, siccome sente ancora fame, allora s’accontenta di mangiare anche l’altra, anche quella che in circostanze differenti avrebbe scartato. Ora, cosa pensi che succede se la lasciassi libera di pascolare a suo piacimento? Te lo dico io cosa succede! Succede che comincerebbe a gironzolare dappertutto, spilluzzicando un po’ qua ed un po’ là; scegliendo solo i bocconi migliori e calpestando tutto il resto. Così, quando tornerebbe indietro perché la fame non sarà finita, l’erba che troverebbe sarà tutta rovinata e non la mangerà più. Questo succederebbe! Perché vedi,» s’interrompeva un attimo per cercare un Toscano ed accenderlo alle braci del camino «vedi, ti dicevo, se tu avessi imparato qualcosa della campagna, sapresti che in un prato per prima mangia la mucca, poi mangiano le pecore, e per ultimo cavalli e capre. Non l’ho mica inventato io, sai! È la natura che è così. Quindi sarebbe già del tutto semplice, non abbiamo abbastanza terreni da farne un allevamento come dici tu. Non abbiamo abbastanza terreni e, quindi, nemmeno abbastanza erba…»

«Ma con quel che si risparmierebbe della manodopera si potrebbe sostenerle anche con del fieno, no?» cercava il Cesare di dire la sua.

«Aspetta che ci arrivo. Aspetta un momento, perché anche qui hai torto.» s’interrompeva ancora, perché sembrava che quel Toscano non tirasse tanto bene. «Dunque, da quel che sento, vedo che le tue conoscenze si sono fermate a quando eri ragazzo, a quando si lavorava per produrre solo latte, perché è da quel giorno che non è più così; adesso il latte non è più la totalità della nostra produzione ma sarà scesa più o meno ad un terzo. Il resto sono granaglie. Granaglie d’ogni tipo, che si cambiano un anno per l’altro, a seconda di quel che richiede il mercato; altrimenti cosa credi che si portano via i carri che fanno avanti e indietro dalla cascina? Granaglie, caro mio, granaglie, che ad imbroccare quelle giuste, si possono vendere a peso d’oro. Tant’è che sto pensando di costruire un mulino, sfruttando la corrente del Cavo Grosso.»

«Ma questo cosa c’entra, io dicevo che…»

«No, non dire niente che non ho ancora finito.» interrompeva l’Ortensio, che stranamente si trovava ben disposto a dilungarsi in conversazione col figlio, come forse non era mai successo prima. «Non ho ancora finito, perché come vedi, a fare come dici tu ci troveremmo che non solo si perderebbe la produzione del latte, che sarebbe il meno, ma con le bestie libere di pestare dappertutto, finiremmo col perdere anche il resto. No, convinciti che non funziona, convinciti che la Spinetta si trova nella campagna di Novara, non nelle praterie dell’America.»

«Ma potremmo sempre continuare col latte, e poi ci sarebbe la carne, che sarebbe quella la produzione cui si dovrebbe aspirare. Potremmo farla con meno della metà dei dipendenti che abbiamo adesso.» insisteva il Cesare, ma un po’ meno convinto, un po’ meno battagliero.

«Oh, Madonna Madonna! Quando si vive nel mondo dei sogni…» lasciava in sospeso la frase l’Ortensio, impegnato nel dare delle gran boccate di fumo. Quel sigaro se lo stava proprio gustando; quasi quanto stava godendo della lezione che stava dando al figlio.

Non solo si scopriva il piacere di insegnare, di spiegare, e di dimostrare che le sue conoscenze sovrastavano quelle dell’altro, ma nel cancellarne le idee, nello smontarne le speranze e nel distruggerne i sogni, quasi quasi ci trovava un qualcosa di perverso, un qualcosa che gli procurava il piacere del rigirare il coltello nella piaga.

«Se tu frequentassi un poco più il mercato,» continuava paziente l’Ortensio «se tu venissi con me a Novara… al palazzo del mercato, per sentire il parere degli altri… se tu, invece di avere dei colpi di genio stessi un poco più attento agli affari di questa azienda, allora lo sapresti da solo che il mercato della carne è una cosa che non cammina. D’altra parte basterebbe che ti guardassi attorno. Prova un poco a chiedere alla gente in giro, prova a chiedere quante volte a settimana si mangia carne; chiedilo e poi fatti quattro conti.» chiudeva il discorso con un sorrisetto che avrebbe voluto esprimere mestizia, ma che, data la situazione, aveva il sapore della compassione. Poi s’allungava ancora al fuoco, si sfregava le mani come per raccoglierne meglio il calore, e s’allungava sulla poltrona in beato rilassamento, come se, oltre al sigaro, si stesse anche godendo la vittoria appena avuta.

Per il Cesare era diverso. Un’altra volta, pensava, un’altra volta che un qualcosa ideato da lui, gli si smontava alla logica del padre. Un’altra volta, come tante altre, che vedeva fallire un suo progetto, ma proprio perché era stato messo di fronte al fallimento con una logica esasperante, proprio per quello si sentiva dentro la ribellione; un senso sordo di ribellione che non sapeva mai indirizzare ma che gli montava sempre in casi del genere, una ribellione sorda, oscura, terribile. Non era possibile che non potesse funzionare, pensava ostinandosi, a dispetto di quel che aveva appena sentito, lui lo sapeva che non era possibile, se lo sentiva nel sangue, lui. Avrebbe atteso, avrebbe atteso continuando a pensarci. Avrebbe continuato a pensarci a quel suo sogno, e se lo sarebbe perfezionato, aggiustato, ripulito dalle impurità. Se lo sarebbe rigirato nella mente osservandone ed accarezzandone tutte le sfaccettature; questo avrebbe fatto, ma non lo avrebbe di sicuro buttato, non lo avrebbe accantonato. Sì, questo avrebbe fatto, avrebbe atteso che succedesse qualcosa di nuovo e chissà, forse un giorno sarebbe tornato a riprenderlo.

La Pasquina, anche se presente, non aveva battuto ciglio. Da seduta alla sua sedia accanto alla finestra, dove la poca luce del giorno nebbioso la rischiarava come un quadro a tinte fosche, lei aveva continuato a sgugliare in silenzio. Manco a dirlo che la conversazione l’aveva seguita tutta e bisogna anche dar credito che, ad un certo punto, s’era trovata in accordo con le idee dell’Ortensio, ma quel Cesare, però… Quel suo entusiasmo così giovane, quei suoi slanci così freschi, quelle sue convinzioni così vere...

Avrebbe tanto voluto intervenire, magari solo per consolare l’uno senza redarguire l’altro, e questo suo stato d’animo si trovò a confessarlo al Cesare, la prima volta che si trovarono assieme. Avevano continuato a vedersi, ed abitando nello stesso posto era normale che fosse così, ma in quel loro incontrarsi, in quel loro accompagnarsi, era sempre come ci fosse un qualcosa di premeditato, di aggiustato, di predisposto perché succedesse.

L’andare all’orto facendo il giro largo al di fuori del muro di cinta. L’attardarsi nella stalla per avere la scodella di latte quando la mungitura non era ancora finita; o l’approfittare di qualche ora del sole che la stagione poteva offrire, per gironzolare con finta distrazione per viottoli e sentieri circostanti, non sembravano mai degli eventi che portassero agli incontri casuali, ma al contrario. Sembrava, vale a dire, che fossero proprio gli incontri che succedevano perché gli eventi. Era come si curassero, come se s’aspettassero, come se l’uno anticipasse le intenzioni e le mosse dell’altro, per trovarsi presente sul suo percorso.

Continuò così per tutto l’inverno, poi, col rinnovarsi della stagione, con lo stimolo prorompente della nuova vita, quegli incontri non sembrarono nemmeno più così tanto casuali.

Il Cesare cominciava sentirsi qualcosa di diverso nei confronti di quella che avrebbe dovuto essere la sua matrigna, e lei, la Pasquina, in linea con l’esplodere della primavera, cominciò con l’avere qualche insofferenza, al continuo prolungarsi dell’inverno dentro al suo letto. Non fu una riflessione su uno stato ormai improntato alla continuità, ma fu solo un lasciarsi andare alla natura, fu un concedersi alla vita, un accettare che due covoni di paglia secca, messi ai lati di un fuoco, non potessero fare altro che infiammarsi.

I loro incontri si moltiplicarono, poi si fecero più pressanti, poi, nonostante col primo vento d’Aprile cominciassero a svolazzare mezze parole, certe impressioni aleggianti; nonostante la sensazione precisa che, quanti li vedevano girassero lo sguardo con un mezzo sorriso, nonostante la ragione, in fine, non seppero sottrarsi al richiamo che sembrava spingerli l’uno nelle braccia dell’altro.

S’incontrarono nei solai, s’incontrarono in quei luoghi deserti dove non si sarebbe potuto dire se fu l’uno a seguire l’altra o se fu l’altra ad esprimere un muto invito, ma s’incontrarono e, tra i telai che sostenevano gli allevamenti dei bachi da seta e tra i sacchi di scorta delle granaglie, diedero sfogo ad una passione che stava accumulando energia da troppo tempo. Si amarono completamente, si amarono rabbiosamente; con la disperazione dell’inevitabile, l’una, e con una specie di rivalsa, una specie di rivincita, una specie d’affermazione di se stesso, l’altro. Ci fu dell’amore? Ma no che non ci fu; ci fu solo del sesso. Ci fu solo quel che la natura imponeva, ci fu solo quel che la stagione portava, quello che, dal più piccolo filo d’erba in poi, tutto chiedeva in coro che si compisse.

Ci fu solo quel che alla lunga doveva esserci, insomma, e quel che l’età e la vita non potevano più negare, loro lo portarono avanti in ogni attimo rubato agli occhi degli altri ed in ogni angolo nascosto che riuscirono a conquistarsi. Lo vissero gioiosamente, lo vissero fingendo con loro stessi che si trattasse del grande amore, di quello negato dal mondo e contrastato dagli eventi. Lo vissero giocando con dedizione, che per la prima volta nella loro vita li faceva sentire grandi. «Io sottoscritto ecc. ecc…. Giuro che, a dispetto di tutto,… ecc. ecc. Sarai mia per sempre ecc. ecc.… e che per sempre continuerò ad amarti e ad averti come fosse il primo giorno.» scriveva il Cesare su un foglio di carta gialla, strappato dal quaderno dietro la porta del magazzino dell’avena.

«Io sottoscritta…ecc. ecc. Giuro anch’io che sarò per sempre tua… ecc. ecc. Mio uomo, mio sultano… ecc. ecc. Ragione della mia vita…» scriveva anche la Pasquina sopra un altro foglio giallo, strappato dallo stesso quaderno destinato al carico e scarico del magazzino in cui s’erano rifugiati. Frasi stupide da ragazzi, esteriorità inutili da adolescenti tardivi. Due fogli gialli che, oltre al resto, loro si scambiarono come un gioco, come un muto pegno d’amore, come una fede nuziale.

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Il Sergio Ravasi, un pezzo d’uomo che quando ti si parava davanti pareva un armadio, faceva il guardiacaccia. Abitava alla cascina Borella ed aveva sposato una delle figlie del fittavolo dalla quale aveva avuto due figlie. Non gli piaceva di lavorare in campagna, ma soprattutto non gli piaceva di lavorare agli ordini del suocero. Non era mai corso buon sangue tra quei due, c’era sempre stato qualcosa che non li aveva mai avvicinati del tutto. Sarà stato che il matrimonio s’era svolto come “matrimonio riparatore”; giacché la Giovanna era già incinta da un paio di mesi e suo padre, almeno nei primi tempi, considerava il Sergio un poco di buono, un profittatore, come qualcuno in cerca di dote o di vita facile. Questi suoi pensieri, queste convinzioni, anche se subito cambiate dopo averlo conosciuto meglio, pareva che avessero lasciato lo stesso il segno ed una qualche traccia di ruggine. Il Sergio quindi, anche per questo aveva preferito non impiegarsi in cascina, anzi, nonostante le ripetute richieste da parte del suocero, che lui considerava tardive e che rifiutava sempre con un mezzo sorriso di scuse, aveva preferito tenersene il più lontano possibile. Lui preferiva tornare la sera, stare con sua moglie e le sue figlie, ed in cascina preferiva abitarci e basta.

«No no, alla larga.» si diceva nelle sue riflessioni solitarie, per non urtare nei sentimenti della moglie «Alla larga, perché tanto, alla fine, finirebbe che si rompe.» “Alla larga” non era per lui un’affermazione spregiativa, era solo il suo modo d’esprimersi, come un intercalare che l’aiutava nei suoi pensieri d’indipendenza e d’autoaffermazione. N’era convinto, tanto che s’era impiegato come guardiacaccia alle dipendenze della provincia, e ci teneva a tener ben separati i suoi affari da quelli di suo suocero e della cascina. Oltretutto a lui piaceva di stare in giro per i campi, di occuparsi della selvaggina e di controllare che i bracconieri non facessero troppo danno; che bracconiere lo era stato lui pure e, sui danni che aveva combinato, n’aveva un’esperienza tale che gli tornava adesso utile per esercitare il controllo sugli altri. Quella di girare per campagne e sterpaglie era sempre stata una passione fin da ragazzo; era stato questo suo modo di condursi che gli era valso il sopranome di Kocis, ed era appunto su questo sopranome, con cui qualcuno lo chiamava ancora, che il suocero aveva puntato tutte le sue rimostranze.

«Cosa? Mia figlia in sposa ad un vagabondo?» urlava contro tutti, quando, per ultimo, era stato fatto parte di quella realtà «Uno che si chiama Kocis e che se la prende quando non è ancora sua? Sono cose da pazzi, queste qua!» si disperava camminando per la corte «Io quello l’ammazzo! Io a quel Kocis lì ci sparo in mezzo alle gambe!» urlava ai quattro venti, entrando ed uscendo dalla stalla; che lui era un fittavolo di quelli stimati, uno di quelli che aveva della roba al sole, e sua figlia meritava di sicuro qualcosa di meglio. Salvo poi, dopo i primi tempi d’un matrimonio forzato, accorgersi che quel ragazzo, quel Kocis, appunto, non sembrava poi così tanto male, anzi…

Era adesso un uomo d’una quarantina d’anni, un uomo che, sfogata tutta la pazzia della gioventù, sembrava essersi messo tranquillo ed accasato volentieri. Era amico d’infanzia del Galante, ed in nome di quell’amicizia, i due avevano iniziato una specie di collaborazione per quel che riguardava il territorio della Spinetta. S’incontravano a sera alla “Passeggera”: una cascinetta un po’ sperduta sulle rive dell’Agogna, che s’era trasformata in trattoria ed osteria per clienti abituali che volessero passarsi qualche ora fuori casa o, quando feste comandate o solo bella stagione, accoglieva gente di città che veniva in campagna per respirare aria diversa.

«Ieri sera ho sentito sparare.» diceva il Galante al Sergio, in un tardo pomeriggio di prima estate del 1919. Erano seduti alla tavolata di fuori, sotto la pergola non ancora fiorita, e negli stessi panni da lavoro che avevan portato per tutto il giorno si stavano bevendo un bicchiere prima di cena, godendosi il primo caldo rilassante, dell’ultimo sole del giorno.

«Tu lo hai sentito ieri sera, ma io sono già in giro da qualche giorno a vedere delle cose che non mi piacciono.» rispondeva il Sergio appoggiando sul tavolo cartucciera e fucile, annuendo da sotto al suo cappello d’Alpino, che dal ritorno da militare sembrava non volesse toglierselo più. Portava solo i pantaloni, della divisa regolamentare, poiché stivali e giacca li aveva sostituiti con un paio di scarponi da montagna ed un gilet di tela pesante e senza maniche. Che così si sentiva meglio, si trovava più comodo, più a suo agio, e se qualcuno di quegli impiegati da ufficio con le mezze maniche avesse avuto qualcosa da reclamare, ci provasse un poco lui a vestirsi da burattino e gli venisse assieme a camminare tutto il giorno per i campi.

Il Galante invece, lui portava i vestiti con cui si vedeva da sempre: giacca di fustagno e pantaloni alla cavallerizza infilati dentro a stivali comodi di cuoio ingrassato. Aveva legato il cavallo ad un palo della pergola, ed anche quella bestia pareva stanca quanto lui; entrambi avevano passato una giornata dura, che i lavori in campagna erano in pieno svolgimento e bisognava far fronte a tutto.

«Da che parte li hai sentiti?» chiedeva il Sergio pulendosi la bocca col dorso della mano, mentre appoggiava al tavolo il bicchiere vuoto.

«M’è parso dalle parti della scarpata alta, ma potrei sbagliarmi; due scariche di due colpi ciascuna e poi più niente. Potrei essermi sbagliato sulla direzione, però.»

«No che non ti sei sbagliato, » sorrideva il Sergio alzando il braccio alla donna, per chiedere di avere i bicchieri riempiti di nuovo «non ti sei sbagliato per niente, perché è proprio da quelle parti che ho trovato le spiumate di quel che hanno ucciso. Te l’avevo già detto l’anno scorso, mi pare.» s’interrompeva per prendersi una sorsata dal bicchiere appena riempito «Te l’avevo detto che quei campi non erano stati spigolati a dovere. È rimasto a terra troppo granturco, ed è logico che adesso i fagiani si radunano tutti lì attorno.»

«Accidenti a quei cervelloni ed alle loro macchine nuove!» replicava scontroso il Galante «Sono loro che han fatto il raccolto. Loro, quei cervelloni che s’illudono d’inventare una macchina che dovrebbe tagliare, trebbiare, spigolare e fare il raccolto tutto da sola. Ma dimmi tè! Manca più solo che gli facciano fare anche il caffè e poi saremmo a posto! Guarda te cos’hanno combinato, invece, hanno lasciato a terra mezzo raccolto, ecco cos’hanno fatto! Ma tu, un’idea non ce l’hai? Non ce l’hai una mezza idea su chi possa essere che viene a far danno in casa nostra?»

«Alla larga! Io di mezze idee ne ho tante, ma fino a che non li prendo sul fatto, con le idee non ci faccio niente. Ma li piglio, vèh! Ahh, stai tranquillo che li piglio! È da qualche tempo che cerco le cartucce sparate, ma anche quelle non si trovano; o le nascondono bene, o se le raccolgono in tasca. Appena le avrò trovate ne sapremo di più. Hai visto mai? Magari sono cartucce caricate in casa o magari sono state comprate in armeria, chi lo sa. Ma vedrai che quando le avremo in mano, allora si potrà andare ad infilarle in bocca a chi penso io.»

Si lasciarono all’imbrunire per tornare alle loro case, verso le loro cene che li aspettavano, entrambi troppo stanchi perché continuassero a trovar piacere nella reciproca compagnia; l’uno che si rimetteva in spalla il fucile ed inforcava la bicicletta, l’altro che slegava il cavallo e con un ultimo sforzo riusciva a montarci in sella.

Sembrava davvero assorto, il Sergio, in quel suo impegno che s’era preso. Non gli piaceva d’esser preso in giro da quattro morti di fame che, più per bravate che non per reale bisogno, venivano a fare danni nel territorio affidato alla sua tutela; e non gli piaceva nemmeno che fosse proprio il Galante che glielo ricordasse. Aveva già avuto quattro chiacchiere con il Signor Ortensio, quel giorno che, da cavallo, lo aveva fermato sul sentiero del bosco vecchio.

Erano smontati entrambi, l’uno dal cavallo e l’altro dalla bicicletta, per mettersi a camminare affiancati con ognuno la propria cavalcatura alla mano, ed impegnati in una conversazione oziosa che girava un poco su tutto, non avevano potuto fare a meno che il discorso finisse per calare sopra quel problema.

Anche per l’Ortensio era più un punto di principio che altro. In fondo i bracconieri c’eran sempre stati, ma che da parecchio tempo si ostinassero a sparare nel fondo della Spinetta, stava diventando quasi un’azione di spregio, quasi una sfida; una sfida al padrone ed al suo guardiano. Oltretutto si era agli inizi del mese di Giugno, mese in cui la selvaggina bisognerebbe lasciarla tranquilla, che potesse avere la possibilità d’accoppiarsi e di curarsi i nuovi nati, ma anche in quel periodo, di notte, una fucilata là ed un’altra qua, indicavano che quei malnati non si prendevano riposo.

Verso la fine del mese, dunque, in un giorno di gran caldo e con l’aria immobile che annunciava in anticipo le prime afe, il Sergio si stava ancora affannando nei suoi solitari giri di controllo.

Sul tardo pomeriggio, mentre quasi per abitudine costeggiava una riva cosparsa da alte frasche, slargando il piede ogni tre passi in un movimento che spianava un poco l’erba e l’aiutasse a veder meglio quel che avrebbe potuto esserci a terra, gli parve di intuire un movimento, una presenza, un qualcosa nel folto d’ombra ed alti cespugli a qualche passo da lui.

«T’ho beccato!» fu il suo primo ed unico pensiero «Se ti prendo con il fucile in mano, allora sì che ci sarà da ridere!» si pregustava la soddisfazione di poter prendere per le orecchie quegli accidenti di bracconieri che lo stavano prendendo in giro.

Fece quindi quattro passi di slancio e, con la canna del fucile che teneva tra le mani, slargò di colpo la macchia in questione. Non ci trovò i bracconieri, anzi, da quel che ci vide fu proprio lui il primo ad esserne imbarazzato.

Appartati nel folto d’ombra, nascosti al mondo come meglio non si sarebbe potuto, si trovò davanti agli occhi il Cesare e la Pasquina, in abbigliamento ed atteggiamento che non avrebbe potuto spiegare meglio quel che stava avvenendo.

«Porca vacca!» gli scappò dalla bocca spalancata dalla sorpresa, ma subito dopo, subito mentre ritirava il fucile e lasciava richiudersi la coltre di frasche, subito prese il sopravvento quel suo solito modo d’essere: «Alla laaarga!» si disse come unico pensiero «Queste son cose da padroni, queste son cose che se non si vedono son tutto un guadagno. Alla laaarga!» si ripeté un’altra volta il Sergio e con questo, poiché il suo carattere, solo qualche minuto dopo, di quel che aveva visto se n’era di già dimenticato.

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«Oh Dio, l’Ortensio mi ammazzerà!» fu l’unica reazione della Pasquina, alla sorpresa del momento.

«Questa non ci voleva.» pensava invece il Cesare più calmo, che, dopo il primo attimo di terrore, cercava di analizzare l’accaduto con maggior freddezza e praticità «Mio padre diventerà una furia. Lo verrà a sapere, alla fine; lo verrà a sapere e diventerà una furia.» Il Cesare lo sapeva, non c’era bisogno di insegnarglielo che la gente parla «Alla lunga anche il Sergio parlerà e quando mio padre verrà a saperlo, allora diventerà davvero una furia. Quello mi disereda! Quello è capacissimo di cacciarmi da casa!»

Non sapevano i due ragazzi, che il Sergio sarebbe stata l’ultima persona al mondo che avrebbe detto una sola parola di quel che aveva visto. Non per rispetto, per correttezza, o per riserbo, ma solo perché lui era così. Quel che non lo riguardava non lo interessava, ed in quanto allo spettegolare… ma per carità, non era proprio lui il tipo. Era un tipo, insomma, che non si poteva nemmeno dire che sapesse conservarsi i segreti, era solo che certe cose lui le nascondeva, lui le chiudeva a chiave in un angolino del cervello e poi ne nascondeva pure la chiave; in una parola: era come se se le dimenticasse con la stessa semplicità con cui le aveva viste.

Ma questo i due ragazzi erano troppo giovani perché lo sapessero. L’Ortensio lo sapeva, il Galante lo sapeva, e lo sapeva pure il Don Claudio; lo sapevano, insomma, tutti quegli uomini che l’esperienza di vita aveva insegnato loro di poter leggere dentro il cuore degli altri. Ma quei due no, quei due erano ragazzi che, nonostante l’età, le esperienze di vita le avevano sempre schivate.

«Si verrà a saperlo di sicuro,» pensavano «si verrà a saperlo e noi saremo rovinati.» continuavano a tormentarsi torcendosi le mani, ed anziché cercarsi come prima, per reazione cominciarono quasi a rifiutarsi, quasi a respingersi.

Cominciarono a vivere nell’angoscia, con il senso di colpa che li opprimeva, ma, soprattutto, a vivere con il terrore di quel che sarebbe stato. Pareva loro di sentire le accuse negli occhi della gente, nei rumori ora striduli ora velati della cascina, nei canti degli animali, nell’aria stessa che respiravano.

Si vedevano più solo di sfuggita: più per interrogarsi con gli sguardi muti che non per la reale voglia di stare assieme. Sapevano che quando la luce del giorno avrebbe illuminato i lati scuri delle loro coscienze, allora per loro sarebbe calata la notte. Sapevano che stavano solo vivendo un periodo di transizione, di provvisorio, di tragica attesa, e sapevano anche che l’incertezza stava loro distruggendo l’anima. Non s’accorsero nemmeno del passo successivo: non avrebbero nemmeno saputo dire se fu l’uno a parlare per primo di “indispensabilità di anticipare le mosse degli altri” con l’altra che annuiva incredula, o se fu invece il contrario; se fu l’una che parlava e l’altro che supinamente accettava.

«Lo capisci?» diceva l’uno dei due all’altro «Se lo viene a sapere sarà la fine di tutto.» si tormentavano le menti, negli attimi degli incontri fugaci «Dobbiamo essere noi a muoverci per primi, dobbiamo anticipare!» ed i discorsi interrotti, le proposte lasciate inespresse e le sensazioni velate, restavano sempre in sospeso poiché la colpa, opprimendoli, trasformava i loro incontri in attimi rubati, limitandoli più soltanto a quattro parole che, alla lunga, stavano pure diventando rabbiose.

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Anche se l’estate continuava ad allargare le sue braccia generose ed a promettere buone messi, l’Ortensio non si negava di certo i suoi impegni sociali.

La campagna era in fermento, la cascina pareva non dormire più nemmeno di notte e si stavano organizzando i raccolti, in quella che pareva una mobilitazione generale. Parte del granturco s’era iniziato a tagliarlo ancora acerbo, prelevandolo a zone per triturarlo ed aggiungerlo alla dieta della stalla, l’altro invece, quello che s’era deciso di lasciar maturare, quello splendeva al sole caldo, con delle pannocchie pene e grasse e dorate, che bastava guardarle per sentirsi bene. Anche il frumento era venuto bene, quell’anno, e si stendeva alto e forte, fluttuando uniforme alla brezza, come la porzione d’un mare dorato.

«Dici che promette bene, allora?» chiedeva il Don Claudio all’Ortensio, durante la passeggiata attorno alla chiesa.

«Sì, quest’anno pare proprio che andrà tutto bene.» rispondeva l’Ortensio, che da qualche tempo era lui che aveva cominciato a cercare la compagnia del prete, per scambiarci quattro chiacchiere. Veniva ogni tanto a trovarlo di notte, per parlare un poco e fare qualche passo assieme attorno al perimetro della chiesa. Non veniva di notte per nascondersi, ma solo che dopo cena i lavori e gli impegni erano terminati e qualche parola con quell’amico di tutta una vita, ogni tanto, facevano piacere anche quelle.

«Bene, vorrai entrare in chiesa per ringraziare Dio, allora?» insinuava malizioso il Don Claudio, che con quelle schermaglie i due non s’erano mai concessi tregua.

«No, Don Claudio, siccome Dio non s’è mai visto a lavorare nella mia campagna, sarà ben meglio che si ringrazi il Galante, piuttosto.» dava sfottio l’Ortensio, lasciando l’altro a scuotere la testa «Ci sarebbe, invero, anche quell’altra questione di cui ho detto prima, ma credo che anche per quella non sia il caso di scomodare Dio; anche perché non è mica Lui che dorme nel mio letto.»

«Va ben, Giüdé, lassa stà 'l Signur e disa cul ch'a t'l gh'è da dim, alura!» lo esortava a continuare il prete, che quando le battute toccavano certi argomenti, allora non si trovava più tanto a suo agio. «È della Pasquina che mi volevi parlare?» chiedeva, fermandosi e sedendosi sul bordo del muretto; che lui era vecchio e di camminare troppo, oramai, sentiva anche lui i suoi bei dolori alle gambe.

«Oh Dio, parlarne…» si schermiva un poco l’Ortensio, non tanto deciso ad affrontare certi argomenti «…è solo così, solo qualche parola.»

«Vieni, vieni qua a sederti anche tu. È inutile che reciti la parte del giovane anche con me, sai? Stai invecchiando anche tu, caro il mio Ortensio!» invitava e faceva posto accanto a se sul muretto, nell’angolo più buio del sagrato «Allora…» continuò quando furono vicini «Cosa mi dici della Pasquina? Era da parecchio che non la vedevo, sai? Poi adesso, di colpo, adesso invece è già da qualche tempo che la vedo regolarmente. Eri forse tu che non la lasciavi venire a messa?»

«Oh no, Don Claudio! Nel vostro negozio per me ci può venire chi vuole e quando vuole. Era solo che anch’io stavo notando dei cambiamenti, tutto lì. Era per questo che volevo parlarne»

«E cosa te ne pare, a te…, di questi cambiamenti, voglio dire… a te ti piacciono, a te?»

«Oh sì, ma… voi… voi non potete capire di cosa sto parlando.» Pensava l’Ortensio dubbioso.

Non poteva, infatti, spiegare al prete che sua moglie lo stava sorprendendo. Non poteva dire di quegli ultimi tempi, di quelle ultime notti in cui la Pasquina si stava comportando come davvero avrebbe dovuta essere una moglie. L’Ortensio aveva avuto da pensare al suo matrimonio durante quei pochi anni. S’era sposato per ripicche assurde e questo lo sapeva; s’era sposato per desiderio di nuovo, per desiderio di giovane, e questo riusciva a capirlo; ma la Pasquina, almeno a letto, non era mai stata quella ragazza che prometteva di essere. La differenza d’età: gliela faceva pesare; la stanchezza fisica: anche; e tutte quelle speranze di cambiamenti, quelle speranze di novità che lui sentiva come indispensabili per essere rimesso sulla carreggiata degli uomini attivi, quelle erano rimaste solo promesse, o forse illusioni. Illusioni create dalla sua stessa mente bisognosa di diversivo, illusioni che s’era immaginato di leggere nella disponibilità della ragazza, illusioni che, solo dopo la distanza di poco tempo, da mesi e mesi lui sentiva che gli stavano raffreddando il letto.

«Tu lo pensi davvero? Che non possa capirti, intendo.»

«Don Claudio…,» cercava di spiegarsi l’Ortensio in una specie di confessione del tutto personale «…in teoria, forse, ma come potete capire voi di quel che passa per il letto di due sposi.» Si limitava a pensarlo, l’Ortensio, quel che avrebbe voluto dire. Si limitava a pensarlo, che la Pasquina da poco tempo era come cambiata, s’era come trasformata. Più paziente nei rapporti: fino al punto d’aspettarlo; più compiacente e fantasiosa: fino ad interessarlo ancora; più ardente, più audace, più…

«Voi ci credete che le persone possano cambiare?» s’azzardò a chiedere.

«Non lo so, Ortensio. So per certo che ci provano, e so che alcune ci passano la vita nel provarci. Che poi ci riescano, però forse, alla fine, solo Dio può dirlo.»

«Ehh, Don Claudio Don Claudio, certo che voi state in una posizione privilegiata; siete al riparo dalle brutture del mondo, voi. Quelle che conoscete sono solo per sentito dire!» si sfogava l’Ortensio, che in certe sere era talmente pieno di cupi pensieri…

Sopraffazioni dolorose, affari condotti sulla pelle degli altri, vere e proprie rapine legalizzate che eran costate lacrime; tutto, alle volte gli tornava alla mente, ed il leone che era in lui era come perdesse la grinta, come si sentisse traballare i denti, e non bastava più, allora, dare una scrollata alla criniera per sentirsi di nuovo a posto. Come si chiamava tutto questo, si chiamava rimorso? O forse era solo che stava invecchiando ed era tempo di bilanci, tempo di resa dei conti. Anche quel figlio, poi! Anche quel figlio che non aveva saputo educare. Anche per quello si sentiva in colpa? Non aveva saputo o non aveva voluto? O più semplicemente, da leone qual’era stato, non aveva avuto il tempo per distrarsi dal suo compito primario della caccia.

«Èhh, Don Claudio Don Claudio…» insisteva nei confronti dell’altro che vedeva lì accanto, e che lo vedeva pensieroso quanto lui.

Il Don Claudio stava riflettendo sull’ultima opinione sentita: “Al riparo dal mondo”.

Ma lui lo era, lui? Lo era forse mai stato? La storia ed i superiori dicevano impietosamente di no. Lui stesso diceva di no.

Gli anni verdi, gli anni giovani per lui, furono travagliati dalla ricerca di un equilibrio che non riuscì mai a raggiungere, e non solo gli studi gli furono più lunghi del solito, ma n’ebbe persino modificato il carattere, tanto che, negli anni a seguire, come prete risultò un fallimento.

A trentacinque anni, assumendo il nome di Don Claudio, ebbe il suo primo incarico in una parrocchia della Brianza. Era una parrocchia ricca!

Nella zona fiorivano le filature e l’allevamento del baco da seta, ed i parrocchiani non lesinavano nel sostegno materiale dei loro parroci. Fu per lui un periodo felice; poteva finalmente toccare con mano la comodità e la rilassatezza che la sua nuova condizione gli conferiva.

C’era, per la verità, la prima messa del mattino che a lui dava un po' di fastidio; alzarsi all’alba, per dire messa davanti a quattro carampane, non lo trovava particolarmente piacevole. Ma tant’è, si diceva, il lavoro è pur sempre lavoro e se mi tocca anche questo, bèh, bisognerà pure che lo faccia.

Certo però che il dopopranzo era tutta un’altra cosa.

Le ore prima del Vespro erano riservate alle confessioni, e non esisteva giorno in cui lui non ne fosse più che felicemente disponibile. S’era scoperto una passione tale in quella pratica, tanto da esserne lui il primo proselitore del bisogno.

Non era un interesse propriamente pastorale, le anime bisognose se le sapeva scegliere, lui, eccome se lo sapeva! Nel tempo n’aveva selezionato un gruppetto che, nella sua eterogeneità, rappresentava un po' tutto il suo bisogno di partecipazione.

Di quale interesse poteva mai trattarsi se non quello di ascoltare, di sentire e di sognare degli intrighi altrui? Ed in questo Don Claudio ci sguazzava, se n’eccitava e s’esaltava fino a viverne i retroscena, fino a saperne prevedere le trame e gli sviluppi di quel che le buone donne gli andavano raccontando.

Le richieste e le prestazioni dei fidanzati, le esigenze e le volontà dei mariti, ed i sogni… i sogni e le fantasie di quelle donne, giovani e non, che nel raccontare e nell’abbandonarsi psicologicamente a lui che sapeva ascoltarle, che sapeva spingerle ed esortarle alla confidenza, non potevano trattenere né l’essenza e né i particolari dell’esuberanza.

Ce n’era una in particolare: tale Laura Bonanno.

Donna di poco più di quarant’anni, con due figli già adulti e sposa ad un piccolo benestante, che, ogni venerdì, puntuale come il sole che nasce, si presentava in Chiesa per le sue funzioni.

Arrivava quasi furtiva, non parlava mai con nessuno e, dopo averlo cercato con lo sguardo discreto, si appartava nei pressi del confessionale ad aspettare il suo turno, nell’attesa d’essere ascoltata.

Erano i loro Venerdì!

I loro consessi, da tranquilli ed impersonali che erano all’inizio, divennero via via più circostanziati, più inquisitori e, spinti lubricamente dall’uno ed accettati maliziosamente dall’altra, passo dopo passo non furono più l’apertura spontanea di un’anima, ma divennero lo sfogo di una mente.

Una mente che, guidata, accompagnata, quasi spinta, si prendeva perversamente gioco delle forme, trascendeva nella malizia e, alimentata dalla fantasia già di per se licenziosa, cercava, con la complicità del confessore, non più la resa di quel che era stato, ma lo sfogo immaginifico di quel che avrebbe voluto che fosse.

Il prete in questa sua parte di satiro ci godeva e se ne beava. Aveva aperto quel vaso di Pandora e, nel guardarci dentro, si saziava di un turbamento tale, il cui abbrivio gli durava per tutta la settimana. Se ne sentiva avvolto, immerso, quasi fosse lui a viverlo, e nel viverlo gli piaceva di avvicinarsi agli stimoli di quella parte di vita che, data la sua condizione, gli veniva negata.

Sapeva che stava travisando la realtà. Sapeva che quella donna, nell’esporre, mescolava perversamente vero e falso, reale e fantasioso, ma non poteva più farci niente. Non eran più delle confessioni, erano diventate quasi delle rappresentazioni.

Oramai avevano aperto il vaso e, guardandoci dentro fino in fondo, lui non poteva nemmeno più esimersi dal placarsi l’apice del turbamento cui la donna lo portava, lasciando lei, l’altra, dall’altra parte della grata, a guardarlo con gli occhi lucidi.

Il gioco si ruppe quando la signora Laura si confidò con un’amica, e quest’altra, pensando forse d’esser stata dimenticata dalla Divina Provvidenza, volle a tutti i costi partecipare anche lei a quel tipo di Novene, dimostrandosi però, e purtroppo, una donna turbolenta, chiassosa ed invadente.

Invadente ed anche invasiva, però, dato che fin da subito lei prese l’abitudine di non presentarsi al confessionale dalla parte della grata, da quella riservata alle donne, ma arrivava direttamente dall’altra, da quella cioè, dove solo una tenda la separava dal confessore e, nei momenti del parossismo, anziché tenere le mani giunte, le passava attivamente dall’altra parte.

Il Don Claudio finì per essere richiamato dal Vescovo, e dopo le minacce e le ramanzine del caso, fu trasferito e spedito nella parrocchia di un paesino della Lomellina. Trasloco, quindi, praticamente una fuga. Una fuga che lo portava ad un cambio di Vescovado e ad un nuovo bacio d’anello, dove il nuovo Vescovo pensava che, in un paese di contadini, dovessero esser tutti talmente presi dal lavoro che non ci sarebbero state signore perditempo col vezzo d’insidiare i suoi ministri.

Vero! Di donne perditempo non ce n’erano, ma il Sant’uomo non aveva pensato che, se le madri erano così tanto impegnate, ad essere libere dovevano per forza esserne le figlie.

La permanenza del prete in Lomellina durò quasi cinque anni, poi, una brutta storia d’abusi e di bambine lo costrinse ad un nuovo trasloco.

S’era cercato per la verità, di zittire tutto, ma il malvezzo continuava ormai da troppo tempo ed ormai troppe erano le anime innocenti che potevano alzare l’indice accusatore, per questo il Don Claudio non poté fare altro che accettare d’essere ricollocato e promettere al Vescovo di Novara che non sarebbe più stato un ministro scomodo. C’era riuscito? Aveva saputo, come diceva il suo amico Ortensio, di mantenersi al riparo dal mondo?

«Ma tu cosa cerchi, Ortensio? Ti stai confidando o cerchi invece un’assoluzione per una confessione non fatta.» non poté fare a meno di chiedere.

«No Don Claudio, non cerco assoluzioni. Mi stavo invece dicendo, che la Lena aveva visto giusto nell’insistere di venirla a trovare di frequente; è piacevole stare con lei. Non tanto per il parlare, ma sono soprattutto le parole non dette; sono le frasi inespresse, che lasciano dentro qualcosa che arricchisce, che placa l’anima. Sì, Don Claudio, penso proprio che…» “Cagnoni!!!” li interruppe una voce diretta a nessuno, che proveniva da un’ombra scura.

«Tö, tal là ch’l’è ‘n gir anca lü!» disse il prete rivolto all’ombra «Maledetti cagnoni, un giorno faremo i conti!» insisteva l’ombra per conto suo, allontanandosi con passo stanco.

«Se è in giro il “Cagnon”,» disse il Don Claudio sorridendo «allora vuol dire che dev’esser tardi e che si dovrà andare a letto.»

«Ha ragione Don Claudio, ci vedremo un’altra volta per parlare. O magari per stare zitti, chissà.»

«Hai poi imparato a guidare l’automobile?» chiese ancora il prete.

«Ma per carità, queste cose moderne! C’è la cavallina che va tanto bene!»

«Dove l’hai lasciata?»

«È legata alla rastrelliera fuori l’osteria.» rispose l’Ortensio, che già si stava avviando «Però ha imparato il Cesare, a guidare, voglio dire!» annunciò orgoglioso «Da quando è tornato da militare si vede proprio che ha cambiato testa. Un giorno l’ha tirata fuori, c’è salito sopra, e come se niente fosse se n’è andato a farsi un giro per i campi. Dovevate vederlo, Don Claudio,» continuava quasi eccitato «dovevate vederlo che razza di confusione n’è venuta fuori»

«Vai in pace, Ortensio, e lascia che il tempo aggiusti le cose da solo.» lo salutava il Don Claudio ritirandosi, che dagli ultimi minuti non si sentiva più tanto bene. Era invecchiato, si diceva, Madonna Santa se era invecchiato, e certe reminiscenze non gli facevano piacere di certo. Al riparo dal mondo lui, continuava a rimuginarsi, magari prima, magari in un periodo di follia che lo aveva lasciato peggio d’una bandiera al vento! Magari prima, sì, prima, perché poi non aveva mai smesso di pregare Dio che lo mantenesse fermo nei suoi propositi di prete; sempre in equilibrio tra il lecito e l’illecito, sempre sovraccarico d’impegni, per non lasciare che la mente illanguidisse in pensieri malsani! Lui al riparo, sì, «Dovrò proprio fargli un bel discorso, un giorno o l’altro.» si riprometteva alludendo all’Ortensio «Tanto,» si consolava «tanto se sta zitto lui, potrò ben stare zitto anch’io.» E sorrideva, al pensiero di come due persone che si capivano, potessero dirsi tante cose senza nemmeno aprire bocca.

Anche l’Ortensio era preso in introspezioni sue. Aveva avuto una buona serata con il Don Claudio, ed ora, come suo solito, con le redini in bando lasciava che la cavallina lo riportasse a casa. Avvolto stretto nel mantello, che l’umidità della notte non fosse entrata fino in fondo alle ossa, si lasciava cullare dal movimento ritmico del calesse, entrando ed uscendo dalla sonnolenza e dai pensieri inespressi che lo stavano accompagnando.

Non s’accorse cosa fu che fermò il cavallo; lui n’ebbe solo un brusco risveglio, uno scatto improvviso che lo fece alzare a mezzo. Vide solo una gran vampata di fuoco che lo abbagliò, si sentì solo urtato, rapito, scaraventato da un tremendo urto al petto, e morì di colpo, ancor prima di toccare terra, senza nemmeno accorgersi di quel ch’era avvenuto.

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L’Adelmo Vigoni era un camminante. Aveva una sessantina d’anni, era originario di qualche parte dell’Astigiano ed era un uomo arrabbiato. Arrabbiato con tutti, arrabbiato contro tutto, arrabbiato col mondo intero, insomma. Più parlando da solo a voce alta che non a qualcuno in particolare, aveva l’abitudine di apostrofare chiunque con il titolo di “Cagnone”, intendendo con quell’Italianismo, ad un grosso cane che, ai suoi occhi, doveva essere il divoratore di tutte le sostanze e rappresentare così tutti i mali del mondo.

«Cagnoni!!!» sembrava si scagliasse contro quanti incontrava, intendendo forse, con questo, di volerli mettere sull’avviso di una prossima resa dei conti «Cagnoni!!!» s’indirizzava a tutti, come per accusarli d’aver già mangiato, mentre lui aveva ancora la pancia vuota. Ed avanti di questo passo, Cagnone era colui che vestiva meglio dialtri, Cagnone era chi stava seduto a far niente, Cagnone era chi stava bevendosi il suo bicchiere di vino, Cagnoni erano tutti gli altri, insomma, visti agli occhi suoi come approfittatori, come usurpatori, come persone non degne di quel che erano o di quel che possedevano.

Fin da giovane s’era dimenticato di dove fosse casa sua, tanto che, al momento, era ancora uno dei pochi che si dedicavano a quello strano modo di vivere.

Lui camminava, si spostava, vale a dire, da un posto all’altro senza una meta apparente. Sempre in viaggio per una qualche destinazione che solo lui conosceva, facendo tappa in paesi e villaggi sul suo percorso, dormendo sotto i casseri o dentro i fienili. Faceva in continuazione da Est a Ovest e viceversa, esercitando la professione di “Guaritore”. Non scendeva mai più a Sud del Ticino, pareva che quel fiume fosse per lui un confine naturale, come una barriera invalicabile; si accontentava di percorrere il suo corridoio benvoluto da tutti, qualche volta solo sopportato, e qualche altra, specie quando si richiedevano i suoi servigi, addirittura benvenuto.

Ci sapeva fare, il Cagnon, giacché questo era il sopranome con cui tutti lo riconoscevano.

Ci sapeva fare nel castrare maiali e cavalli, ci sapeva fare con le galline che smettevano di produrre uova o con le oche da ingrasso che smettevano d’ingrassare; aveva una mano santa per i parti difficili delle mucche, guariva le accidentali ferite a qualsiasi animale e, qualche volta, si spingeva persino a metter le mani sopra qualche cristiano.

Viveva di niente, il Cagnon; viveva dei pochi centesimi che raggranellava con l’esercizio dell’arte sua e del poco che gli era offerto, che lui ficcava con fare sospettoso dentro il tascapane, assieme ad una miriade d’intrugli di speci, di colori, e d’odori impossibili.

Ossa triturate di chissà quale carogna, orina di mucca mescolata con chissà che, e cose di questo genere, che quando le esibiva allargandole a terra di fronte a qualche caso difficile, di quelle pomate, di quegli oli, cataplasmi ed impiastri vari, le comari che assistevano apprensive “all’operazione”, non potevano fare a meno di segnarsi con il segno della croce. Sette, forse otto volte su dieci aveva successo ed il “paziente” guariva davvero. Non si sapeva se perché doveva davvero guarire, o se era solo perché volesse togliersi di dosso quelle tremende puzze con cui lo si affiggeva, ma fatto sta che davvero guariva, ed il nome del Cagnon veniva un’altra volta osannato e venerato come si fa con i Santi in chiesa.

Quella sera era stanco. Era partito da parecchio a Sud di Novara, aveva dormito in una cascina dov’era richiesto un suo intervento, poi, da una cascina all’altra, aveva percorso la campagna ad Ovest con direzione Nord fino ad arrivare al quartiere di S. Martino. Lì aveva cenato in un’osteria, ed adesso stava proseguendo ancora verso Nord diretto in Val Sesia, ad una festa di paese in cui ci faceva sempre dei buoni affari; ma era stanco, oramai, era stanco e stava cercando una cascina ospitale con un fienile bello comodo.

In un punto buio del sentiero, che anche se la luna era piena, anche se la visibilità della notte estiva era come fosse giorno, ma su quel sentiero fiancheggiato da filari d’alberi e cespugli alti non si vedeva dove si appoggiavano i piedi, quando si trovò al mezzo di due curve sentì una fucilata improvvisa che lo fece sussultare.

Non la sentì proprio vicino, forse una cinquantina di metri più indietro, ma subito dopo ci fu lo scalpiccio di un cavallo che partiva al galoppo ed arrivava nella direzione sua.

Quando gli fu addosso, l’unica cosa che vide fu solo una grossa ombra da cui spiccava una macchia bianca da quello che doveva essere il cavallo. Galoppava da spiritato e lo avrebbe di sicuro travolto se non si fosse buttato nella bassa scarpata che costeggiava il sentiero.

«Cagnoni! Cagnoni maledetti! Cagnoni briganti!!!» ebbe solo il modo di indirizzare con il pugno alzato alle due ombre che gli parve di vedere a cassetta e che, data la velocità, rischiavano di rovesciarsi nell’affrontare le due curve ravvicinate «Cagnoni…» continuava inviperito a bisticare tra i denti mentre riprendeva il cammino suo, e tra i piedi si trovava qualcosa su cui incespicava ma non capiva cos’era.

Si fermò a raccoglierlo, e quando l’ebbe tra le mani, gli ci volle un poco per riconoscerlo come una di quelle cose fatte all’uncinetto e cariche di perline colorate, che le donne usano allo stesso modo con cui lui usava il suo tascapane.

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Il Galante ed il Sergio stavano uscendo allora dalla “Passeggera”.

Le sere d’estate erano tiepide, quando non addirittura calde o peggio ancora, afose. Si stava bene fuori casa, insomma, e nonostante i lavori in campagna stessero per arrivare al dunque, loro si erano concessi quella loro consueta serata di “Libera Uscita”, come loro la chiamavano, e tra una partita a Tresette che non voleva finire, ed ancora un bicchiere che lo offro io perché prima l’hai offerto tu, s’era per loro fatto tardi ed era ora di tornare a casa. Avevano discusso di lavoro, durante la partita; avevano discusso dei bracconieri che non si trovavano, tra un bicchiere ed un altro. Avevano parlato e chiacchierato come si fa tra amici affiatati che, oltre alla scappatina giornaliera per un bicchiere di fretta, s’incontravano anche una volta a settimana per una serata in piena regola.

Mentre sulla porta si stavano scambiando le ultime parole, che in certi casi vale di più un andare che non cento andiamo, anche loro sentirono il tuono secco della fucilata che squarciava la notte. «I bracconieri!» fu il loro primo pensiero guardandosi in faccia «No no, alla larga!» replicava dopo un attimo il Sergio, che il suo orecchio allenato gli aveva fatto distinguere i due colpi sovrapposti, fusi assieme in quello che pareva uno solo «Un bracconiere non fa mai uno sbaglio del genere, non è mai tanto nervoso da tirare i due grilletti assieme. Deve aver sparato qualcun altro.» Ed in quel mentre, a non più di trecento metri, col rumore del galoppo pazzo portato dalla notte, anche loro videro l’ombra scura del calesse che sfrecciava a velocità da paura.

«La cavallina!» scappò di bocca al Galante, che dalla linea dell’animale, dal balenare di qualcosa di chiaro vicino a terra e dalla macchia bianca sulla fronte che spiccava come una luce accesa, non ci sarebbe potuta essere un’altra bestia uguale nemmeno a cercarla.

«Se continuano così, sul ponte del canale finisce che si rovesciano.» fece eco il Sergio, che il ponte lo vedevano, e quando quelli ci furono sopra ci mancò davvero un pelo che succedesse.

Arrivato sul ponte il cavallo parò, diede uno scarto, si aggrovigliò, incespicò nelle sue stesse le gambe e cadde sulle ginocchia; ma non appena toccata terra, si rialzo come una furia, e come una furia spiritata riprese il galoppo passando il ponte con un fragor di tuono.

Al Galante sembrò persino che, dopo quell’attimo di baraonda, nelle ultime folate zoppicasse un attimo da un anteriore, ma su questo, poiché il buio e la distanza, non avrebbe potuto giurarlo.

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Era ormai mezzogiorno, quando il Cesare e la Pasquina, arrivati in città a Novara su espresso invito, entravano nella caserma di polizia. Erano in tremendo ritardo. Veramente avrebbero voluto declinare quell’invito così perentorio, ma come si faceva, era il Delegato Capo a farlo.

La giornata era cominciata caotica. All’alba erano stati svegliati da una processione di gente che veniva ad annunciare la disgrazia; poi, in mesto corteo era arrivato il corpo del padrone e dopo ancora, senza nemmeno aver avuto il tempo di riprendersi, era arrivato quell’invito.

Avevrebbero voluto lasciare al Galante l’onere dei doveri di casa, ma quell’uomo non si trovava. Ripiegarono quindi sul Mariano, il bracciante anziano della cascina, e mentre spiegavano all’uomo stupefatto il compito che gli stavano assegnando, diedero l’ordine d’attaccare la cavallina. «Tanto, » diceva il Cesare per tranquillizzare il Mariano, che quando i compiti esulavano la stalla lui si sentiva sempre in uno stato d’imbarazzo «tanto saranno solo quattro parole di condoglianze,» diceva, con lo sguardo d’assenso della Pasquina «quattro parole ed una stretta di mano. Vedrai che in un paio d’ore saremo di ritorno.»

Ma si scoprì che alla cavallina mancava un ferro e si dovette aspettare che il maniscalco lo rimettesse. Poi la Pasquina perse quasi mezz’ora nel cercare la sua borsetta, e quando si rassegnò di farne a meno, nonostante la strada percorsa in tutta fretta, il ritardo era pressoché imperdonabile.

«Non sarà così grave, in fondo.» pensava il Cesare, legando la cavallina affannata all’anello nel muro e correndo a varcare il portone d’ingresso con la Pasquina al seguito « Di sicuro lo sapranno già della disgrazia che c’è capitata, e se siamo in ritardo lo capiranno bene.» Affrettarono il passo per attraversare il cortile. Quasi trafelati percorsero il corridoio e si fermarono solo davanti alla porta su cui, in bella mostra, inciso su targa d’ottone lucido, stava scritto: Delegato Capo.

Si diedero una rapida ripassata all’abbigliamento, si guardarono ancora negli occhi per concentrarsi in un mesto sorriso di circostanza, aprirono la porta, ed entrarono.

Li accolse subito lo sbraitare caotico del Cagnon: che non era quella l’ora d’arrivare alle chiamate della forza pubblica; e loro stavano già sorridendo, a quelle che ancora credevano le sparate senza senso di quello scemo del villaggio. Ma il sorriso andò via via gelandosi quando videro, convocati e seduti in fila contro la parete, anche il Don Claudio, il Sergio, il Galante ed il Cagnon, appunto.

Il Delegato li stava aspettando, con espressione seria, seduto alla sua scrivania imponente, sopra di cui, allineati ed in bella mostra, stavano: una borsetta nera di filo ritorto, tutta carica di lustrini, di perline colorate, e lavorata all’uncinetto; un ferro da cavallo con ancora qualche chiodo ritorto; ed un foglio di carta gialla……..



Fine




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